ALEX PUZAR. IL FENOMENO
di Max Mones
Estroverso, eclettico, un po’ spaccone. A sedici anni supera Hakan Carlqvist sul “muro” di Bra. A diciassette è già tra i grandi. Vince il primo Mondiale nel ‘90 con Michele Rinaldi e l’altro nel ‘95 con Corrado Maddii. In mezzo ai due titoli, tante stagioni in cui ottiene meno di quello che potrebbe. Senza “quella testa” avrebbe vinto di più? Forse, ma oggi non sarebbe Alessandro Puzar.
Alex racconta Alex… e non solo!
Emilio Ostorero
“Uomo di esperienza, carismatico, pilota fortissimo anche a livello internazionale. Mi ha insegnato tanto sul piano tecnico e umano, trasmesso la grinta nel guidare la moto, grande motivatore. Mi diceva: ‘Oggi Alessandro tu vinci’. Non so se lo dicesse apposta per caricarmi, sta di fatto che non si sbagliò mai. Assieme a Luigi Toschi e alla buonanima di Fabrizio Meoni, Ostorero è tra le figure più importanti della mia vita”.
Fabrizio Meoni
“Nell’85 avevo cominciato a correre le prime gare di regionale piemontese 125, che poi vinsi. Quando a metà stagione iniziai ad andare forte, KTM mi consigliò di allenarmi con Meoni. Fabrizio fu un po’ il mio mentore, mi mise a disposizione una moto competitiva, mi aiutò a maturare e l’anno dopo passai ufficiale KTM Farioli. Fabrizio era davvero il ‘cinghiale’ che tutti conoscevano, aveva il vizio di provare le moto con gli zoccoli, a manetta tra piante e rocce. Era come un fratello maggiore, cuore grandissimo, e mi accettò nella sua famiglia. In pochi sanno questa storia”.
Luigi Toschi
“Classico industriale milanese con la passione per il motocross e innamorato di Alex Puzar. L’incontro con Toschi nacque a fine ’85 con il progetto KTM Farioli-Matra-Chesterfield. Ce ne vorrebbero di persone come Toschi nel nostro mondo. Ero come un figlio per lui, anche se, giustamente, pretendeva molto. Mi seguì sul piano dell’immagine, sulla gestione del team. Io ero ancora uno sbarbatello, non facevo caso a certi dettagli come la maglietta dentro i pantaloni o il cappellino sul podio. Già allora aveva una visione professionale del motocross, il nostro team si distingueva dagli altri”.
Primo GP
“Quell’anno corremmo l’Italiano e anche qualche Gran Premio 125. Il primo fu in Francia, ma il grande risultato arrivò in Germania alla mia terza di Mondiale, feci un sesto e un secondo. Come meccanico avevo il Ferro (Bruno Ferrari, storico tecnico KTM Farioli, nda), sulla moto non potevo mettere becco. In bergamasco mi diceva: ‘sćèć, rump mìa i ball e daga ol gas’. Ricordo che sotto la moto metteva un tappeto persiano e aveva sempre vicino una bottiglietta di grappa cui ogni tanto dava un tiro. Che personaggio, però avevo una delle moto più forti del paddock”.
Superbowl ’86
“Dopo la Mille Dollari, Genova fu la seconda grande affermazione in campo internazionale di quell’anno. Domenica sera massacrai tutti i mostri sacri dell’epoca, a cominciare da Geboers e Jobè. La pista faceva schifo, avevano riportato terra troppo bagnata e piena di pietre, il pubblico continuava a lamentarsi. Fortunatamente vinsi io, un italiano in Italia, e a fine gara ci fu un boato. Lo speaker Di Pillo mi disse: ‘Alex hai salvato la serata’”.
Mondiale ’87
“Alla mia prima vera stagione Mondiale feci lo sbaglio di sentirmi già arrivato. Dal niente avevo bruciato le tappe e quel salto così veloce mi fece perdere un po’ di umiltà. La pagai cara. Il motocross è uno sport duro, se non fatichi non vinci. Quando non sei allenato rischi di farti male, vuoi tenere il ritmo dei primi ma ti manca ossigeno e cominci a detonare. Mi infortunai, stetti fermo quattro mesi. A fine stagione feci un esame di coscienza e ricordo ancora le parole di mio padre: ‘Alex, ricordati una cosa: le gare si vincono a casa, durante gli allenamenti. Il giorno della gara deve essere un divertimento. La fatica devono farla gli altri a starti dietro’. Quella frase l’ho portata con me per tutta la carriera. E dall’88 cambiò tutto: feci quarto al Mondiale rompendo sei o sette motori. Avrei potuto fare sicuramente secondo, ero competitivissimo. Vinse Bayle, ma lui era di un altro mondo, specialmente nelle condizioni limite. Poi a fine stagione arrivò la svolta”.
Suzuki
“Nell’89 feci un salto di qualità a livello di team notevole, arrivai secondo a 16 punti da Parker rompendo tre o quattro motori. Ero più veloce di Trampas, ma la mia Suzuki era meno competitiva della sua Kappa. Alla prima di Faenza mi superò in salto sul discesone, vidi un’ombra passarmi sopra la testa e mi chiesi chi fosse quel pazzo. Poi capii. Se fossi rimasto in KTM avrei vinto il Mondiale 125, però, tornassi indietro, rifarei le stesse scelte, anche con un titolo in meno”.
Michele Rinaldi
“Fu come un fratello maggiore, vivevo a casa sua, un ambiente stupendo, un momento indimenticabile della mia carriera. Mi insegnò molto sotto il profilo umano, il rispetto per le persone, mi insegnò che la felicità non te la danno le cose materiali, ma le amicizie, gli affetti, l’altruismo… Allora ero un ragazzo molto esuberante e ci volle un po’ prima di fare tesoro di quelle lezioni di vita. Infatti, nel ’90 mi comprai la Ferrari 512 TR. Una mattina entrai in garage da Michele e vidi sulla capote del Testarossa un badile, come per dire… ‘sei proprio un coglione’. Mi misi a ridere e mi disse: ‘che sia la volta buona che tu la venda’. E infatti lo ascoltai…”.
Classe 250
“Nel ’90 non volevo passare in duemmezzo, l’obiettivo era vincere il titolo 125, l’anno prima ero arrivato a tanto così, eravamo partiti con un motore che non andava, non riuscivo mai a partire bene. Solo sul finire di stagione iniziai ad averne uno competitivo: se partivo nei primi tre, passavo Parker e andavo via. Quel titolo mi era rimasto qui. Però Michele aveva altre mire su di me, mi vedeva forte sulla 250, c’era un progetto Suzuki importante. L’anno prima avevo addirittura vinto gli Internazionali d’Italia con la duemezzo. Accettai la sfida malvolentieri. Appena arrivarono le moto dal Giappone andammo a provarle sulla sabbia e Van den Berk, mio compagno di squadra, mi dava cinque secondi al giro. Mi misi a piangere e mandai a quel paese tutti. Michele mi tranquillizzò, al Mondiale mancavano ancora due o tre mesi e pian piano riuscii a guidarla come dicevo io”.
Matilde Tomagnini
“Nell’86, a 17 anni e col 500 2 tempi, vinsi la Mille Dollari battendo i grandi campioni di allora. Per la premiazione di fine Coppa partii in macchina con lei, al tempo aveva un trascorso nei rally auto come navigatrice. Sono uno che non ha paura di nulla, ma quel giorno mi cagai addosso da quanto andasse forte. A parte l’aneddoto, Matilde fu una grande figura carismatica, molto professionale, mi diede molte dritte e credette in me. Fece da trait d’union fra me e Michele. Se oggi sono quello che sono lo devo anche a lei”.
Iller Aldini
“Grandissimo tecnico. Per gli Internazionali d’Italia ’89 mi preparò una Suzuki 250 di serie che andava meglio di quella ufficiale di Rodney Smith. E vinsi il titolo. Ricordo che al Mondiale 125 in Portogallo arrivarono due giacche Suzuki con la scritta Yellow Magic, una per Michele, l’altra per Aldini. Bellissime. La volevo a tutti i costi, al punto che al preparco della prima manche dissi ad Aldo: ‘Se vinco mi regali la giacca’. Ci pensò su un attimo e naturalmente accettò. Appena tagliato il traguardo, la prima cosa che feci fu andare a prendermela. Quella giacca la regalai poi a Pere Ibanez”.
Pere Ibanez
“Quando passai in 250 Aldini passò capo tecnico del Team Rinaldi e Pere diventò il mio meccanico. Nelle trasferte oltreoceano ero solito portarmi dietro il minimo indispensabile: spazzolino da denti, pettine e poco altro. E siccome dormivo in camera con lui, quando mi mancava qualcosa gliela fregavo. Anche quelle sue orrende mutandine coi pupazzetti, ma me ne sbattevo… La volta che lo feci più incazzare fu al Memorial Grola a Odolo. A fine gara salii sul camper per cambiarmi e andare a fare la doccia. Non avendo le ciabattine, misi le sue Timberland. Pere era gelosissimo delle sue scarpe. Quando tornai al camper con le scarpe zuppe, giuro che se avesse potuto mi avrebbe ammazzato. Scherzi a parte, Pere era un meccanico top, non sbagliava mai niente, fra noi ci fu subito grande feeling, mi caricava, un rapporto di fiducia totale”.
Maggiora ’90
“Credo sia stata una gara epica più per il pubblico, per me una delle tante. Alla prima manche scivolai in partenza e forse proprio per quel motivo se la ricordano ancora in molti. Spettatori in delirio, gente in mezzo alla pista, una situazione surreale, adrenalinica, un coinvolgimento totale, esperienza fantastica. Dopo le lacrime di inizio anno, diventai un tutt’uno con la Suzuki, frutto di un lavoro di equipe straordinario. Mi sentivo superiore agli altri, ero veramente forte anche di testa, mi caricavo. Un’autostima che ancora oggi mi fa avere successo nel lavoro”.
Svezia ’91
“Quell’anno esagerammo un po’ col motore. Era un po’ brusco, un progetto diverso, non più completamente ufficiale, però io c’ero, a riprova del fatto che fino a prima del penultimo GP in Svezia ero ancora al comando del Mondiale. Purtroppo, gestii male quella gara, col senno di poi avrei dovuto starmene tranquillo, ma avevo la testa di un ventenne, mi infortunai il ginocchio destro e per la seconda volta vinse Parker”.
Trampas Parker
“Trampas fu per me di grande stimolo, per migliorarmi, per divertirmi alle gare. C’è sempre stato rispetto reciproco. Lui era meno veloce di me e lo sapeva, però un grande osso duro: le carenze in velocità le colmava col carattere. Altra dimostrazione che quando hai fame turi fuori le palle. Arrivava dal nulla e riuscì a diventare Trampas Parker. Chapeau. Con Parker ce le siamo date di santa ragione, a volte anche oltrepassando il limite. Ricordo la prima manche in Belgio, pista difficile per superare. Lui era secondo, io dietro, era da un po’ che ce le davamo, all’ultimo giro arrivai lungo in una curva e lo centrai. Fu colpa un po’ di entrambi, lui faceva il suo mestiere, io il mio. Poi al cancelletto di partenza della seconda manche mi misi nella mia postazione e lui praticamente di traverso, puntandomi le gambe. Mi aveva dichiarato guerra. Lo fissai e raccolsi la sfida. A quel punto intervenne Rinaldi che mi spostò di postazione altrimenti sarebbe finita male. La gente impazziva per quelle cose. Un tempo c’era il vero dualismo, mi sono giocato Mondiali con Parker, Van den Berk, Chiodi e questa mancanza oggi di dualismo fa si che la gente, purtroppo, si appassioni meno al Motocross”.
Sabbia
“Valkenswaard mi è sempre piaciuta. A Nazioni del ’91 avevo la carogna dentro, volevo dimostrare che, seppur non avessi vinto il Mondiale, ero comunque il più forte. Vinsi la 250 battendo gli americani. Ancora oggi riguardando quel video rivedo quella forza, dopo dieci minuti uscivo e non ce n’era più per nessuno. La sabbia mi è sempre piaciuta, avevo una pedisposizione naturale, però non stavo in Belgio come gli altri. Nei tempi sul giro non ero mai fra i più veloci, lì venivano fuori i veri specialisti, io invece avevo un ritmo gara costante, ero ben allenato e giro dopo giro prendevo sempre più confidenza col fondo. Già ai tempi del regionale mi allenavo sulla sabbia in riva al Po, ce l’avevo dentro”.
America dei Boschi
“Nell’85 mi dissero che ci sarebbe stata una gara internazionale a Bra. Mi diedero una 250 in grazia di Dio perché la mia era attaccata col fil di ferro. C’era anche Carlqvist, che due anni prima aveva vinto il Mondiale 500, poi Caramellino, Dolce e altri bei piloti. Ci andai più per fare allenamento. Ricordo che passai Carlqvist in discesa, e mentre lo passavo mi dicevo: ‘ma io sono più forte di lui?’. Mio padre diceva che era la fame, e aveva ragione”.
Stati Uniti
“A fine ’90 mi contattarono alcuni team americani, se non ricordo male Honda HRC e Kawasaki, in quegli anni però avevo progetti importanti con Chesterfield e preferii continuare nel Mondiale”.
Fast Cross
“Ho rischiato di vincerlo due volte, contro Ricky Johnson e Jeremy McGrath. Jeremy stravedeva per me, me lo disse Giorgio Saporiti. La grande differenza con gli americani era nelle whoops, lì le prendevo, mentre in tutto il resto della pista ero più veloce. Anche lì feci gare stupende, con tutta quella gente mai vista a una gara di Motocross. Penso al public meeting, alla botte dei pompieri per innaffiare il pubblico, tutti sotto il podio a farsi la doccia, a diventare matti. Un’atmosfera e un coinvolgimento che non ho mai più ritrovato”.
Giorgio Saporiti
“Come un secondo padre, persona magnifica. Correre il Fast era un onore, non me ne fregava niente dell’ingaggio, volevo solo correre la sua gara. Saporiti era avanti anni luce, una persona speciale, la pista di Arsago contornata di fiori, i colori, la coreografia. Non esiste organizzatore al mondo che ha fatto ciò che fece Saporiti “.
Yamaha
“Non mi sono mai trovato bene con quella moto, dovevi farla scorrere con le marce corte, non aveva utilizzo. La mia Suzuki aveva più schiena, come piaceva a me, marce lunghe e tanta forza, così uscivo più veloce dalle buche. La Yamaha la dovevi guidare alla Donny Schmit, marce basse e giri al limite. Nel ’92 riuscii a vincere due sole manche, in Venezuela e in Giappone. Dopo la stagione deludente del ’93 decisi di trovare nuovi stimoli e scelsi il Team Kawasaki Platini, ma fu un buco nell’acqua. Platini bravissima persona, solo che non poteva darmi ciò che cercavo”.
Ritorno in 125
“A fine ’94 ero letteralmente abbattuto al punto di prendere la decisione di ritirarmi. Quando, un giorno, ricevetti una telefonata da Maddii che per il ’95 aveva in progetto la 125 con Honda. Se non erro, l’anno prima Chiodi correva con le moto di Corrado e in un Italiano ad Asti lo vidi passare in salita Tallon Vohland con la 250. Per curiosità la provai e mi venne tutto facile. Ero tornato ad andare forte senza fare fatica. Firmai il contratto senza un ingaggio ma solo premi gara e rimborso spese, per motivarmi. Quella stagione non sbagliai niente. Fu un Mondiale difficilissimo, lo vincemmo per soli 3 punti. All’ultima manche in Germania tirai fuori le palle, andai da Chicco, gli misi la mano sulla spalla e dissi: ‘comunque vada, che vinca il migliore’. Guardandolo, capii che avrei vinto io. Era spaventato, tesissimo, non aveva il coraggio di fissarmi negli occhi, fu un duello psicologico”.
Corrado Maddii
“Persona fantastica, molto semplice, a livello tecnico non ce n’era per nessuno, mi insegnò tantissimo, un mago nel settare la moto. Non andava tanto per il sottile, ti faceva entrare in pista con un setting e poi la sessione dopo te lo stravolgeva, così si capiva chiaramente che direzione prendere, dopodiché si lavorava di fino. Corrado riconosceva immediatamente se ad andare male eri tu o la moto, poche balle. Con lui ritrovai le sensazioni provate nel ’90 con Michele. C’era professionalità, energia positiva. Grazie a Corrado prolungai la mia carriera di altri sette anni, sfiorando un terzo titolo Mondiale”.
Chicco Chiodi
“Bravo ragazzo, molto riservato, grandissimo professionista, ha fatto una carriera straordinaria lavorando sodo. Negli anni della 125 duellammo molto, ma onestamente con lui non ci fu mai quel dualismo che ebbi con Parker. Comunque, un bravissimo pilota, non a caso ha vinto tre Mondiali”.
Ritorno alla 250
“Come sempre ero alla ricerca di nuovi stimoli. Dietro il ritorno alla 250 c’era Luongo, allora promoter di Action Group. Giuseppe per me è come un fratello, mi ha dato sempre buoni consigli, mi affidò una Honda sotto la direzione di Becchis, anche lui in orbita AG, ma a livello tecnico non potevo pretendere granché. Andò un pelo meglio che con Kawasaki nel ’94, ma bruciai un altro anno”.
TM ’97-’98
“Mi contattò l’allora responsabile vendite Urbinati proponendomi un progetto di sviluppo della nuova 125, con una struttura esterna affidata a Bertino Castellari. Mi accordai a patto che avrebbero dovuto seguire alla lettera le mie indicazioni. Lottammo alla pari con Chicco, rischiando di vincere il Mondiale. L’anno dopo, quando TM mi comunicò i dati vendita, aveva raddoppiato i numeri. Una bella parentesi della mia vita, e poi Bertino un personaggio unico al mondo, un contadino con una passione smisurata per il Motocross. Un genio”.
Tripletta
“A fine ’98 mi contattò Michele per correre in 500. L’idea di diventare il secondo pilota nella storia a vincere tutti e tre i titoli Mondiali (il solo Geboers ci riuscì, nda) mi allettò. Il progetto partì benissimo, il passaggio alla 450 non fu traumatico, in 250 già usavo la moto come un 4 tempi, marce lunghe e tanta schiena. Arrivò la Yamaha ufficiale, molto competitiva e innovativa. Il problema fu che Andrea Bartolini, mio compagno di squadra, non poté seguire i test perché infortunato, quindi dovetti accollarmeli tutti io. Dal Giappone arrivarono quattro tipi di sospensioni, quattro tipi di motori, quattro tipi di telai e altro ancora, metterli assieme fu davvero un lavoro durissimo. Quella stagione non staccai mai la spina. Le prime gare ero competitivo, molto allenato, alla prima in Francia vinsi, poi arrivò il down. Mi infortunai al collo, un colpo di frusta, e da allora non fui più lo stesso. Andrea vinse il Mondiale, io finii ottavo ma senza quel problema che trascinai per tutta la stagione, avrei potuto vincere io”.
Andrea Bartolini
“Ragazzo fantastico, ci conosciamo ormai da trent’anni, da quando iniziai con le prime gare di Mondiale. Da un lato fui contento per lui perché si meritò quel Mondiale, dall’altro mi girarono un po’ le palle. Ma fu giusto così: Andrea lavorò sodo e il Mondiale fu il giusto riconoscimento ai sacrifici”.
Colpo di coda
“Un mercenario come me andava dove lo chiamavano… ahahà. Nel 2000 tornai in 125 con Yamaha Foi, un mezzo disastro. L’anno dopo riprovai con Kawasaki e il Team Bonetta, ma a metà stagione cambiai con Husqvarna sotto la direzione di Maddii e le cose migliorarono. Nel 2002 passai in forma ufficiale a Husqvarna dove mi occupai anche di collaudi. Fino a tre quarto di stagione fummo in lotta per il Mondiale, poi mi feci male in una gara di Italiano a Mirabello prima del GP del Belgio. L’ultima vittoria in carriera fu proprio quell’anno a Sevlievo, in Bulgaria”.
Ultima chiamata
“Al Nazioni di Bellpuig si chiuse la mia carriera con l’ennesima vittoria. Io, Andrea e Chicco vincemmo il Trofeo. Io guidavo una Husqvarna 450, ero fatto così, un casinaro, andavo a istinto. Non avevo mai un programma”.
Le moto
“In carriera le ho guidate tutte, KTM, Suzuki, Yamaha, Kawasaki, Honda, TM, Husqvarna, 125, 250, 450, 2 e 4 tempi, ma la mia preferita rimane la Suzuki 250 del Mondiale ’90. Moto stupenda, fantastica, mi fece letteralmente godere. All’epoca era già avanti, è attuale ancora oggi”.
Giappone
“Il reparto esperienze Suzuki era molto semplice, le moto del racing cross e velocità stavano tutte assieme, all’epoca era una piccola azienda confronto Honda o Yamaha. Con Yamaha invece non ho mai avuto occasione di andare a visitare la Casa madre”.
Guadagni
“Ho guadagnato il giusto, proporzionale a quanto oggi possono prendere i primi due o tre del Mondiale. Mi ritengo soddisfatto, mi sono tolto degli sfizi, la Ferrari, l’elicottero, che ho ancora oggi. Presi il brevetto nel ’90 assieme a Nelson Piquet (ex Campione di Formula1, nda). I soldi non sono mai stati preponderanti nella mia carriera, fare sport è un’arte, il denaro è una conseguenza, altrimenti non puoi fare con piacere il tuo mestiere”.
Axo Sport
“Sono stato molto legato ad Axo, un grande sponsor. Qualche anno fa Remo Berlese (fondatore dell’azienda veneta, nda) mi disse: ‘Io con te vendevo tanto’. Mi pagavano bene perché la mia immagine faceva vendere. Oggi i ragazzi comprano il pantalone che costa meno, se ne fregano se lo indossa tizio o caio, mentre ai miei tempi la gente era più attenta a cosa vestiva il Campione”.
Montecarlo
“A fine Anni ‘90 Giuseppe Luongo aveva gli uffici di Action Group proprio a Montecarlo. Andando da lui per firmare un contratto per una delle sue gare internazionali, mi consigliò di trasferirmi e di investirci. Me ne innamorai subito, e nel ’90 presi la residenza. Nel tempo sono passati da qui molti piloti, ma io sono uno dei pochi rimasti. Mia moglie dice sempre: ‘tu parli troppo’. Ed è vero, attacco bottone con tutti, difatti la mia attività immobiliare qui a Montecarlo funziona. Molti da qui se ne sono andati perché non si sono integrati, io invece mi sono creato le mie amicizie, i miei giri di conoscenze, faccio pubbliche relazioni e mi diverto come un matto”.
Business
“Da più di vent’anni sono consulente Pro Grip, tengo i contatti coi piloti che sponsorizziamo, faccio assistenza tecnica alle gare di MXGP e MotoGP, sviluppo tutti i materiali, mi occupo dei contratti con YouthStream e Dorna. Sono un po’ il jolly dell’azienda. Parallelamente porto avanti la mia attività imprenditoriale nel settore immobiliare: compro case qui a Monaco, le ristrutturo e le rivendo. È più un gioco che un lavoro, mi diverto, non deve essere una forzatura: se trovo l’occasione la prendo al volo, altrimenti non c’è problema. Alla mia età voglio godermela”.
L’amico Cecchinello
“Ci siamo conosciuti anni fa, credo nel ’92, in un Autogrill a Ventimiglia. In verità fu lui a riconoscere me. Si ricordava di quando correvo in moto, e da lì è nata una grande amicizia. Tra l’altro nel tempo Pro Grip è diventata pure sponsor del suo team in MotoGP. Persona squisita, altruista, ha a cuore il prossimo, uomo di altri tempi. Per me Lucio è come un fratello, gli voglio un bene dell’anima”.
Lo spaccone
“Da ragazzino ero un po’ un pavone, istintivo, avevo energia da vendere, forse anche troppa. Mi ero creato un personaggio, diversamente non sarei stato Alessandro Puzar. Ero talmente forte che prendevo gli altri per il culo. Però se potessi tornare indietro rifarei tutto d’accapo, anche gli sbagli”.
Solo moto
“Se dovevo scegliere tra andare in palestra o in moto non avevo dubbi. La moto da cross è talmente completa che è come se andassi in palestra. Herlings va sempre in moto, lui trita le moto come le tritavo io. Facevo stretching, corsa a piedi, ma la moto era il mio allenamento vero”.
Fisico bestiale
“Ho avuto la fortuna di nascere con una struttura fisica eccellente, mi bastava poco per entrare in forma. Forse perché quando ero tutt’uno con la moto facevo meno fatica di altri. Ancora oggi a cinquant’anni gioco con la moto. Nel ’90 con la Suzuki avevo una marcia in più perché eravamo una cosa sola”.
Testa calda
“In 17 anni di Mondiale avrei potuto vincere di più. Ma ero fatto così, avevo la mia testa. Certi li ho persi perché ero impulsivo, certi altri per problemi tecnici. Quello dell’89 fu colpa del motore, quello del ’91 per infortunio. Ho bruciato degli anni, lo ammetto, non avrei dovuto correre con team non di livello. Se solo avessi ragionato di più… Nel 2002 lo persi io, perché al posto di riposarmi andai a correre a Mirabello. Ma non rimpiango nulla. Se non avessi avuto quella testa probabilmente dopo vent’anni nessuno si ricorderebbe più di me. Nel bene o nel male, di Puzar al mondo ce n’è uno solo. Io ho lasciato una traccia molto forte dentro e fuori il Motocross. In MotoGP stravedono per me”.
Fenomeno
“Se pensi che a 16 anni passai Carlqvist in discesa, che alla Mille Dollari diedi paga ai Campioni del momento, che a Genova mi imposi su Geboers e Jobè. Non so quanti altri ragazzini sono arrivati a tanto. Che poi possa aver avuto alti e bassi per via della mia testa, ci può stare. Mi va bene così, rifarei tutto d’accapo”.
Viaggio nel tempo
“Se il Puzar del ’90 fosse contestualizzato ai giorni nostri, sarei un Herlings: full gas. Jeffrey quando guida deve dare il 100%, in 250 non l’ho mai visto fare tattica. Non so se con il 450, quando si rimetterà a posto, ne adotterà qualcuna. E’ sempre sceso in pista per vincere. Io ero un po’ come lui, salivo in moto, staccavo la spina e via di gas. Divertendomi. Cairoli invece è più ragioniere, infatti ha vinto otto Mondiali grazie alla testa. Gajser è un altro come lui”.
Team manager
“Dopo il ritiro dalle corse non ho voluto intraprendere di proposito la carriera di team manager, troppo complicata, troppi problemi. Un mestiere duro. Vedo la vita che fa Cecchinello, anche se con la MotoGP stiamo parlando di un altro livello. Devi gestire molte teste, mentre a me piace avere il tempo libero, amo andare in palestra, seguire il lavoro in Pro Grip, un’azienda che sento mia. Non ci rinuncerei mai”.
Motocross ieri e oggi
“Ai miei tempi centinaia di piloti si sudavano la qualifica e tra tutti ne saltavano fuori almeno due o tre buoni a stagione, oggi ce ne sono trenta in tutto. Paradossalmente mi piace più l’Europeo, lì ci si guadagna ancora la griglia di partenza. Anch’io a Valkenswaard rimasi fuori dalle qualifiche per un decimo e mi misi a piangere. In 150 si contendevano un posto al cancelletto, col coltello fra i denti. In MXGP ci sono dieci piloti forti, gli altri fanno numero, tanto hanno la finale assicurata. YouthStream sta facendo un ottimo lavoro, ha dato immagine e professionalità al nostro sport, però dal lato sportivo durante le annate escono meno piloti: si fa bene da una parte ma si sacrifica dall’altra. Oggi non possiamo dire che se fosse come un tempo sarebbe meglio, bisogna accettare quello che c’è. Chapeau a Luongo, noi di Pro Grip come sponsor del Mondiale siamo contenti”.
Rimpianti
“Nessuno. Ho fatto quello che dovevo fare, sennò non sarei il Puzar di oggi. L’equilibrio raggiunto oggi è grazie agli sbagli fatti in gioventù. Nella vita bisogna sbagliare per imparare, nessuno è perfetto. Sto bene, sono felice, vengo qui in officina con Lucio, ci facciamo la carne alla griglia con vista sul porto. La gente ti vede positivo, trasmetti energia, e questo fa bene anche agli affari.
Mi sento realizzato, forse anche più felice di allora. Ho passato pure momenti brutti, anni fa ho rischiato di morire in un incidente in moto. Mentre mi stavano portando via in elicottero ero ancora cosciente, sentivo il medico che diceva al pilota di sbrigarsi altrimenti mi avrebbero perso. Una cosa del genere ti cambia la vita, non t’incazzi più come prima per le stronzate. Oggi ho delle cose in più di ieri. Alla mattina mi sveglio, magari è una bella giornata di sole, sono contento di poter vivere qui a Montecarlo, di aver cresciuto le mie figlie in questo posto meraviglioso, di avere l’attività che va benissimo, di essere in salute, di aver vinto dei Mondiali, vado ancora forte in moto. Do ancora paga a molta gente e quando arrivo a casa la sera sono felice come un ragazzino. Tiro fuori il pavone che c’è in me. Mia moglie quando mi vede gasato, mi dice: ‘sgonfiati coglione che c’hai cinquant’anni’… ahahà”.
(images Davide Messora e archivio MOTOCROSS)