CHICCO CHIODI 1997. IL SIGNORE DELLA 125
di Max Mones
“Cicco Ciodi”. No, non è un difetto di pronuncia. È come gli speaker della stagione Mondiale 1997 lo annunciavano prima di salire sul podio di un Gran Premio. Quell’anno, il suo nome venne pronunciato più volte, ma con ancora più enfasi il 31 agosto a Lierop.
Sul sabbione olandese si correva l’ultimo e decisivo GP. Quello che avrebbe assegnato il titolo di Campione del Mondo classe 125. A contenderselo, ancora una volta, Chicco Chiodi e Alex Puzar. Quella domenica tornò di nuovo in scena la sfida di due anni prima in Germania fra i nostri massimi esponenti della scuola italiana di allora. Ognuno col proprio talento, ognuno col proprio carico di dure battaglie combattute sul campo. La 125 di quel periodo storico era la “nostra” classe; in molti Gran Premi, come quello di Maggiora, nella top ten poteva rientrare una nutritissima schiera di piloti italiani, oltre a Chicco e Sandro, andavano forte Claudio Federici, Thomas Traversini, Alex Belometti, Michele Fanton, Massimo Bartolini, Erik Camerlengo. Ce la giocavamo coi francesi Vialle, Maschio, Vuillemin, Seguy. C’era da menare le mani per davvero. E Chicco fu quello che le alzò più di tutti.
Per arrivare però fino al punto più alto della sua carriera, Chicco dovette sudarsela, dedicandosi al sacrificio con abnegazione come pochi. Perché un giorno, il padre Luigino ne era certo, avrebbe coronato il suo sogno.
A Lierop, Chicco si liberò di quel fardello che portava ormai da tempo: Vice Campione nel ’94, alla sua seconda stagione Mondiale, e ancora Vice Campione l’anno dopo, alla fine di un duello che lo lasciò in lacrime dalla frustrazione di aver perso qualcosa di tangibile. Se contro Bob Moore non aveva da recriminare alcunché sulla sua condotta di campionato, contro Puzar nel ’95 Chicco subì una tale pressione, dal team, da tutto l’ambiente, che gli costò il titolo.
Due anni più tardi si replicò la stessa sfida, ma quella prima volta Chicco se la ricordò al punto che a Lierop le posizioni s’invertirono: fu lui a mettere Puzar sotto pressione e al traguardo della prima manche tutto il Team De Carli era lì a festeggiarlo.
DEBUTTO IRIDATO
Faenza 1989. Sì, la grande sfida fra Parker e Puzar! Quel weekend c’era anche Chicco. Era la sua prima Mondiale in assoluto. Allora ci si sudava la qualifica, per uno di quei 40 posti si era disposti a tutto: segno della croce e gas a vita persa. “Correvo per KTM Farioli/Chesterfield, con Parker, Manzo e Rebuschi. Fu una bella esperienza che però mi lasciò l’amaro in bocca – ricorda Chicco -. Le voci di paddock dicevano che, a due minuti dalla fine delle qualifiche, saltarono i computer in direzione gara. Se non erro, avevo il 13° tempo, ero quasi sicuro di qualificarmi. Poi, però, con mia grande sorpresa e delusione, quando i computer ripresero a funzionare ero retrocesso 17° senza sapere come. Rimasi fuori per soli 3 centesimi. Mi seccò parecchio, tutto sembrava molto strano”.
La prima esperienza Mondiale non fu delle più esaltanti, Chicco partecipò poi a pochi altri GP, l’ultimo dei quali in Francia dove con un 12° posto in gara1 portò a casa i primi punti iridati. L’anno dopo il programma era correre tutto il Mondiale sempre con KTM Farioli/Chesterfield, ma s’infortunò alla caviglia e perse la stagione.
Dopo un esame di coscienza fece un passo indietro, nel ’91 si schierò all’Europeo 125 e lo vinse. La classica iniezione di fiducia di cui aveva bisogno per ritentare la scalata al Mondiale. Nel ’92 e ’93 il ritorno nel campionato iridato col Team Italia gestito da Maddii e moto KTM Farioli: la prima manche vinta in carriera al GP d’Italia di Ponte a Egola nel ’92 e un ottavo posto finale nel ’93. Primi segnali di un futuro radioso.
IRONIA DELLA SORTE
La vera consacrazione di Chicco fra i grandi del Motocross arrivò nel ’94, il terzo anno con il tecnico toscano e il Team Italia, ma stavolta con moto Honda. Tuttavia, il destino volle che il giorno più bello della sua carriera si tramutò in quello più triste della sua vita. Domenica 15 maggio a Bellpuig (Spagna, quarto round) Chicco vinse il suo primo Gran Premio con due secondi posti. Gioia incontenibile per un successo che inseguiva con tutte le sue forze. Purtroppo, però, durante il viaggio di ritorno arrivò la tragica notizia. “Avevamo viaggiato di notte, la mattina mi svegliai e mi accorsi che la strada del rientro non era la solita. Corrado mi guardò negli occhi e mi disse che mio padre era mancato proprio quel fine settimana. Me lo avevano tenuto nascosto, nemmeno mia sorella disse nulla. Quando telefonavo a casa mi diceva sempre tutto bene, nessun problema. Preferì così per proteggermi. Quella sera ero andato a letto contentissimo, poi al risveglio mi cadde il mondo addosso: mio padre mi diceva sempre ‘vedrai che un giorno arriverai a vincere un Mondiale’, e vincere il primo Gran Premio senza poter condividere la gioia con lui fu un colpo al cuore. Tornare in moto non fu facile: ritrovare la concentrazione, la serenità, lasciarmi alle spalle certi pensieri. Riuscii a reagire perché era quello che avrebbe voluto mio padre, pensare a lui mi diede forza e in qualche modo mi aiutò a superare il dolore”.
Il titolo Mondiale 125 di quell’anno lo vinse Bob Moore con merito, tuttavia, senza un inconveniente alla moto durante il GP di Germania forse per Chicco le cose sarebbero andate in modo diverso. È vero che col senno di poi non si riscrive la storia, ma una semplice rondella da due lire gli costò parecchio. “Onestamente persi il titolo con quasi 50 punti, però alla prima manche la moto mi lasciò a piedi. Corrado è sempre stato un perfezionista della carburazione, si era ingegnato a realizzare una tacca intermedia allo spillo. La rondella di tenuta si ruppe e la moto morì lì”. Un titolo di Vice Campione al secondo anno di Mondiale fu comunque tanta roba.
LA CHIAMATA DI RINALDI
A fine stagione ’94 arrivò un’offerta dal Team Rinaldi e le strade fra Chiodi e Maddii si separarono, consapevoli entrambi che sarebbe stata la decisione più giusta. “Rinaldi mi fece un’ottima proposta, si parlava di cifre importanti che Maddii non avrebbe potuto garantirmi, e capì. Da Corrado stavo bene, non mi mancava nulla, ma i soldi mi avrebbero fatto comodo, dipendevo da me stesso. Naturalmente l’obiettivo era puntare al titolo, avevo alle spalle la stessa struttura di Moore, passato quell’anno in 250. Sinceramente, all’inizio faticai, la Yamaha era molto diversa dalla Honda, ma più che altro mi mancò il supporto morale. Con Maddii ero abituato a un ambiente familiare, mentre con Rinaldi mi mancavano certe attenzioni, qualcuno che mi spronasse a fare meglio, mi sentivo un po’ lasciato al mio destino. Anche in officina da Rinaldi oltre un certo punto non si poteva andare, mentre da Maddii non c’erano barriere. Insomma, avvertivo un certo distacco. E i risultati in gara ne risentirono. A metà stagione spiegai a Michele i miei problemi, chiesi aiuto e da allora le cose cambiarono, ci fu più partecipazione da parte di tutti. Iniziai a riprendere convinzione e a vincere, fino a quando all’ultima gara a Reil io e Sandro ci giocammo il titolo”.
La domenica per Chicco non cominciò come avrebbe sperato. Durante la prima manche il meccanico di Maschio espose la lavagna al suo pilota e Chicco la colpì in pieno fratturandosi l’anulare della mano sinistra. Puzar gli recuperò qualche punto e la seconda manche fu decisiva per le sorti di entrambi. Nonostante una partenza al comando, per paura di sbagliare Chicco perse la testa e cadde. Non si riprese più e il titolo andò a Puzar. “Lo vedevo davanti a me, solo che non riuscivo a prenderlo. L’ultimo giro mi sembrò infinito”.
IRONIA DELLA SORTE (2)
“Che vinca il migliore”. Così si espresse Puzar prima di quella fatidica seconda manche per vedere la reazione di Chicco… “Sandro aveva già vinto un Mondiale, conosceva perfettamente come comportarsi in quei momenti, io invece non li avevo mai vissuti e lui notò in me una certa tensione. Poi, nel team, tutti a dire che bisognava vincere. Puoi immaginare la pressione. A fine gara mi misi a piangere non tanto dalla rabbia di aver perso, quanto più per lo sfogo dalla forte tensione. Come una liberazione”.
Ironia della sorte, Puzar quell’anno era tornato in 125 per rimettersi in gioco dopo alcune stagioni deludenti e sapete con chi lo fece? Con Corrado Maddii! E con quale moto? La stessa Honda di Chicco dell’anno prima!
La cosa strana è che dopo uno sfogo del genere chiunque avrebbe scommesso sul riscatto di Chiodi nel Mondiale 125 l’anno dopo. Invece no! Nel ’96 Rinaldi gli propose di correre il Mondiale 250 e Chicco accettò. “Il programma del team era orientato sull’allora Classe Regina. La proposta mi allettò, anche perché con la 250 me la cavavo bene. Alla prima di Talavera feci la pole contro Everts, Bervoets, Demaria, Beirer, Bolley. Solo che anche lì non sopportai la forte pressione, la moto era ufficiale e così doveva rimanere, quindi ci misi molto del mio e andai in crisi al punto che a metà stagione mi ruppi un polso”.
- L’ANNO D’ORO
I risultati in 250 portarono inevitabilmente alla separazione dal Team Rinaldi. De Carli, allora in orbita Yamaha, chiese al mamager parmense di poter ingaggiare Chiodi per puntare al Mondiale 125. Poca gente credeva ancora in Chicco nonostante due titoli di Vice Campione. Molti lo consideravano l’eterno secondo, non De Carli che lo prese sotto la sua ala e lo portò in cima al Mondo. “Claudio mi propose di lavorare da lui a Roma e accettai. Mi fece ritrovare la fiducia in me stesso, mi offri un ambiente familiare come quello che avevo lasciato da Maddii. Sentivo la necessità di vivere in un nucleo familiare, ma non meno professionale: solo con meno rigore. Avremmo lavorato a Malagrotta e su una pista di sabbia nei dintorni di Roma. C’era tutto quello che serviva. Contemporaneamente conobbi Pablo Capelli, ex giocatore di rugby argentino che mi fece da preparatore. Prima di allora avevo sempre fatto un po’ da solo, senza un metodo. Iniziammo a programmare il lavoro, facemmo test atletici per capire la mia capacità fisica, già allora usavamo fare manche con la mascherina per verificare il consumo di ossigeno sotto sforzo, poi corsa a piedi sotto il sole cocente col corsetto da 5 chili, tire training, esami del lattato, del ferro. Nel frattempo, Claudio si occupava della parte tecnica e dei test in pista. Alla prima gara in Indonesia c’erano 40 gradi e il 92% di umidità, nemmeno li sentii. Ero davvero in forma, l’armonia nel team era al massimo e i risultati vennero di conseguenza. Mi tolsi pure la soddisfazione di vincere una manche a Schwanenstadt, la pista preferita di Sandro”.
INFERNO DI SABBIA
Lierop era ed è tutt’oggi considerata la pista più micidiale del Mondiale, campo di battaglia non ideale per Chicco. Quanto invece a Puzar, già a Valkenswaard nell’anno del Mondiale 250 aveva dato prova di saper gestire certe difficoltà. “Stavamo rivivendo l’ultimo GP del ’95, solo che a distanza di due anni si erano invertiti i ruoli: ora ero io che giocavo con lui. Ero io che cercavo la sfida, come fece lui con me due anni prima in Germania. Nella prima manche Sandro partì davanti, poi cadde. Ricordo una bellissima foto di Pacini su MOTOCROSS di ottobre proprio nell’attimo in cui Puzar mi vede passare con la coda dell’occhio mentre sta rialzando la moto. A fine gara ero talmente in trance agonistica che nemmeno mi accorsi di aver vinto il titolo. La settimana prima Boonen mi diede un po’ di dritte sulla pista, ma Lierop rimaneva comunque un inferno. Il rettilineo non lo facevo mai dritto, andavo zigzag per trovare la giusta traiettoria. Pensa che dalla prima alla seconda manche avevo alzato di ben 26 secondi il tempo sul giro! Non c’erano buche, c’erano crateri. Nonostante il titolo in tasca, nella seconda manche non volevo sfigurare. Ero stanco, lo ammetto, e iniziai a rilento, quando invece i primi erano partiti a fuoco. Li lasciai sfogare, e pian piano cominciai a riprenderli uno a uno. Alla fine vinsi la manche con netto margine e pure il Gran Premio. Quell’anno ero davvero forte di testa!”.
YAMAHA UFFICIALE, YAMAHA PRIVATA
La stranezza è che nel ’95 con Rinaldi, Chiodi era ufficiale, ma vinse Puzar con una Honda privata. Nel ’97, Sandro era ufficiale TM, ma vinse Chicco con una Yamaha privata. “Al tempo si poteva vincere un Mondiale anche con una moto mezza di serie, non era così scontato che quella ufficiale fosse migliore. Oggi non è così, all’epoca invece c’era più livellamento tecnico, l’importante era lavorare bene e De Carli ci sapeva fare”.
NUMERO 121
“L’idea venne da due miei tifosi di Sissa, Alessio e Pietro Cipriani. Li avevo conosciuti nel ’95, il primo anno con Rinaldi, avevano un pezzo di terra per farci una pista di motocross e chiesero aiuto proprio a Michele che mandò me. Da quel giorno mi seguirono ovunque. Il numero me lo proposero loro: il primo UNO sta per la vittoria dell’Europeo, il DUE per il doppio secondo posto nel Mondiale 125, l’altro UNO era di auspicio per il titolo che avrei dovuto vincere. Quel numero mi portò fortuna, ma lo usai solo quella stagione. Gli altri due anni sulla tabella avevo il numero UNO, all’ora era molto più importante di oggi portarlo sulla moto”.
PASSAGGIO A HUSQVARNA
Dopo il titolo Mondiale con Yamaha e De Carli, si pensò che il rinnovo per il ’98 fra le parti sarebbe stato scontato. Niente di più sbagliato. “Ci furono incomprensioni, promesse non mantenute da parte di Yamaha, un viaggio premio al quale tenevo molto, ma che per loro esigenze sfumò: preferirono farmi correre l’Italiano a Odolo. Ma come? – mi chiesi – avevo già vinto il Mondiale, cosa volevano di più? Ci rimasi male, ma onestamente non al punto da lasciare il team col quale mi trovavo bene. Il caso volle, però, che in quel momento arrivò la proposta di Husqvarna: significava tornare a correre per Maddii con una moto tutta ufficiale. Fu tutto molto inaspettato e velocissimo, in una settimana arrivammo all’accordo. Probabilmente se non si fosse fatta avanti Husqvarna, sarei rimasto in Yamaha. Però le cose andarono diversamente”.
TRIPLETE
La stagione ’97 fu l’inizio di una striscia di successi che portò Chicco Chiodi a fregiarsi di altri due titoli Mondiali 125. “Quando entri in quello stato di grazia, di consapevolezza, di tranquillità e convinzione, poi tutto diventa facile. Tecnicamente non mi sentivo inferiore a nessuno, però dedicai tanto alla parte atletica. Federici diceva che lo battevo sulla distanza, ma che non mi godevo la vita. Non ho mai fatto un allenamento controvoglia, avevo un solo obiettivo e raggiungerlo mi ripagava di tutti i sacrifici. Dipende dagli obiettivi che ti poni; già allora con Pablo si lavorava sull’approccio mentale. Credevo molto nel suo metodo, rispettavo alla lettera i suoi consigli”.
SU MISURA
Chicco è stato l’ultimo vero interprete della classe 125. Prima di lui, due soli altri Campioni dominarono il Mondiale 125 per tre anni consecutivi: Gaston Rahier ed Harry Everts nell’epoca d’oro Suzuki. “La 125 era perfetta per la mia statura, i passaggi nelle classi maggiori furono sempre toccata e fuga, senza mai un vero periodo di adattamento. Provai un po’ tutte le moto, 250 2 e 4 tempi, 450 mono e bicilindrico, ma alla fine tornavo sempre in 125. Allora tra una 125 e una 250 c’era un abisso, poca gente scesa dalla 125 vinceva subito in 250”.
IL SOGNO (INFRANTO) AMERICANO
“A inizio ’99 andai a correre le prime gare di Supercross per Husqvarna. Il Supercross mi era sempre piaciuto, mi aiutava tecnicamente. Cominciai ad allenarmi una settimana prima di Anaheim sulla pista di McGrath, avevo una moto di serie, per regolamento non potevo correre con la mia Husqvarna ufficiale, le benzine erano diverse, facemmo fare degli scarichi da Pro Circuit. Al press day di Anaheim mi spaventai da quanto fossero verticali le rampe dei salti. Ciononostante, mi stupii di me stesso, il sabato mi qualificai sesto e in finale chiusi quinto. Alla seconda a San Diego mi sentivo in forma, chiusi tutti i tripli già al primo giro, assieme ad Albertyn fui uno dei pochi. In finale feci una bella lotta con Ramsey, che poi vinse il titolo, e terminai quarto. Il podio mi scappò per poco. Da lì presi seriamente l’ipotesi di trasferirmi l’anno dopo in America. Pro Circuit mi fece un’offerta, ma al tempo Mitch Payton aveva un sacco di giovani e per me rimanevano gli spiccioli. La vera proposta arrivò da Husqvarna, con la quale avevo appena vinto il secondo titolo, per appoggiarmi al Team Ferracci. Purtroppo al Motor Show di Bologna mi si spense il duemmezzo su un quadruplo – si era sconnesso un filo della centralina – e riportai la frattura di tre vertebre e della testa del radio. La stagione Supercross saltò subito, c’era ancora il National da correre, le vertebre guarirono abbastanza in fretta ma il polso mi dava ancora problemi. Provai a correre la prima di outdoor, solo che dopo dieci minuti il polso mi rimaneva bloccato e mollai il colpo. Dopo un mese tornai in Italia e mi feci operare. Dover rinunciare al sogno americano mi dispiacque parecchio, ero convinto che avrei potuto fare bene. Non temevo il confronto con gli americani. Ricordo un aneddoto alla prima ad Anaheim, stavo chiacchierando con Carmichael e gli si avvicinò un ragazzino di Pro Circuit. Carmichael mi presentò come il pilota italiano Campione del Mondo e quel tipetto gli rispose ‘ah sì, quello con la Husqvarna’ prendendomi quasi in giro. La settimana dopo a San Diego lo rincontrai, lo salutai e gli dissi ‘ti ricordi di me? Sono quello con l’Husqvarna’. Il tipo mi guardò di traverso perché ad Anaheim io arrivai quarto, lui nemmeno si qualificò”.
L’AMICO MAC
“Quando mi dissero che avrei girato sulla pista di McGrath non ci credevo. Il tutto fu organizzato da Jeff Surwall, allora manager di NoFear, sponsor di abbigliamento di entrambi. Fu un grande onore. La pista era molto difficile, Jeremy mi fece vedere come affrontare le wave. Girammo un po’ assieme anche sulla pista outdoor”.
MADDII, RINALDI, DE CARLI
“Tutti quanti, a loro modo, molto professionali. Corrado era un perfezionista, le sue Husqvarna erano inconfondibili, carburazione precisissima. Il nostro rapporto fu sempre buono, a volte quando aveva i suoi pensieri dovevi lasciarlo stare. Maddii è sempre stato un pragmatico, dell’immagine non gliene è mai fregato nulla.
Anche De Carli era molto alla mano, mi ci trovai subito bene, uno di quelli convinti del proprio lavoro. Non era presunzione, solo la consapevolezza di saper fare e pure bene: dieci titoli Mondiali non si vincono per caso. Nonostante le vicende che a fine ’97 portarono a separarci, siamo sempre rimasti in buoni rapporti. Per cinque anni non ho avuto più notizie di quella moto, poi un giorno me la regalò. Non avrei mai pensato.
Il mio rapporto con Rinaldi fu inizialmente un po’ freddo, poi cambiò. Era molto abituato a lavorare con piloti stranieri, come Stefan, Demaria, Moore, Schmit, magari di mentalità diversa dalla mia. Il suo modo di lavorare si rispecchiava nel rigore del reparto corse che era off limits. Probabilmente con gli altri funzionò, non con me”.
ANGELI CUSTODI
“Iniziai con Gigi Mazzoni al tempo del Team Italia e Maddii, si può dire un secondo padre per me. Lavorai poi con Pera da Rinaldi, Roberto Manucci, Fabio Santoni, Nazareno Properzi e tanti altri. Con tutti i miei meccanici avevo instaurato un rapporto di totale fiducia. Il meccanico è la persona più vicina a te, che ti conosce meglio di tutti: la mia moto doveva essere precisa, col gas bello morbido. Nessuno t’insegna a settarla, può darti delle nozioni, però poi devi essere tu in grado di capire come sistemarla. Io ero molto sensibile alla carburazione, sentivo anche il click in più o in meno alle sospensioni”.
MXoN
In carriera Chicco Chiodi può vantare la vittoria di due Motocross delle Nazioni. “Uno, il primo, quello in Brasile nel 1999, perché l’altro, a Bellpuig, senza gli americani, ha poco valore. In quello ‘vero’, corsi contro un Ricky Carmichael ancora agli esordi, ma già ufficiale Kawasaki Pro Circuit. Non vedevo l’ora di confrontarmi con lui, sull’America ero molto informato, a fine stagione avrei dovuto andarci a correre. Io ero Campione del Mondo, lui vinceva a casa sua, anche se al Nazioni non incrociammo mai i manubri”.
CHICCO OGGI
“Cerco di insegnare ai ragazzi un po’ di quello che mi è riuscito meglio in carriera, non solo come stare in moto, ma anche uno stile di vita. Provo a indirizzarli a praticare il motocross con metodo e giudizio, seguendo regole, facendo sacrifici, insegnamenti che potrebbero essere utili anche nel quotidiano. Con mio padre dovevo conquistarmi le cose, d’estate andavo ad aiutarlo a lavorare sui tetti, puoi immaginare il caldo. Però a fine giornata avevo le mie belle soddisfazioni.
Sono rimasto nell’ambiente del motocross marginalmente, non ho intrapreso la carriera di team manager o quella di personal trainer forse perché non ho mai avuto l’aggancio giusto. Mi piacerebbe poter dare consigli a gente professionista, nel Mondiale esistono le figure dei coach, vedi Demaria, Bervoets, Vimond, Stefan, Smets, di italiani invece non ce n’è, o quasi. Magari qui da noi non si ha bisogno di una figura del genere. Probabilmente i nostri ragazzi sono già bravi di loro…”.
CHICCO ALLO SPECCHIO
“Se c’è un equivalente di Chicco Chiodi nel Mondiale di oggi? Molti miei amici rivedono in Antonio Cairoli quello che ero io negli anni dei titoli: consapevolezza di vincere, gestione della gara, lasciar sfogare gli avversari, sapendo aspettare il momento giusto per attaccare. Mi ritrovo nella sua mentalità di gara… un grande lavoratore come lo ero io. In Cairoli vedo la mia stessa determinazione, se c’è da vincere si vince, poche storie”.
CROSS IERI E OGGI
“A me piaceva più il Mondiale ai miei tempi. Una volta nel paddock ci si divertiva di più, il venerdì sera ci si trovava a giocare a pallone. Oggi forse tutta questa professionalità ha spinto i piloti ad essere più rigorosi. Nel paddock oggi vedi solo i meccanici, dei piloti nemmeno l’ombra, arrivano il venerdì mattina, fanno le loro cose e non li vedi più se non in gara e durante la sessione autografi. Io vivevo il paddock, dormivo e viaggiavo in0 camper. Oggi il contatto col pubblico è più distaccato”.
DEDICA SPECIALE
“Diventare Campione del Mondo è sempre stato il mio obiettivo. Mio padre me lo ripeteva sempre, ‘se ci credi, un giorno ce la farai’. A Lierop, sul podio, guardai in cielo e gli dissi, ‘ci sono arrivato’. Ho realizzato il mio sogno, anche se non credo di aver fatto qualcosa di straordinario. L’unico rimpianto è non averlo potuto condividere con mio padre. Ho vissuto la mia carriera inseguendo un sogno. Devi vivere per qualcosa, altrimenti morirai senza aver raggiunto nulla. Me lo sono tatuato sul petto”.
(images Davide Messora e archivio MOTOCROSS)