RON LECHIEN. THE “DOGGER”
di Zep Gori
Ha fatto impazzire una generazione di avversari e di appassionati. Perché nessuno come lui è mai riuscito a coniugare talento, genio, sregolatezza e risultati. Perché nessuno come lui riusciva a vincere, o quantomeno dare battaglia, guidare come pochissimi altri fuoriclasse una 500, senza neppure ammazzarsi di allenamenti come tanti suoi avversari. Un talento puro cristallizzato in 25 vittorie nel National e Supercross, due gipì USA, un Nazioni. Una carriera eccezionale condizionata e spenta prima dei 30 anni per questioni personali: la passione per le donne, la birra e la droga. Problemi oggi risolti e archiviati, tanto bene che Lechien è tornato a divertirsi in sella alla Kawasaki.
QUELLA VOLTA CHE…
Motocross Nazioni 1988 in Francia. Roger De Coster convoca per la squadra americana Ricky Johnson (Honda 250), Jeff Ward (Kawasaki 125) e Ron Lechien (Kawasaki 500). Johnson aveva vinto SX e National 500, Ward l’aveva battuto nel National 250 e Lechien aveva corso tutta la stagione fra alti e bassi. De Coster lo conosce bene e sa bene che dovrà tenerlo al guinzaglio. Ci prova, inutilmente. Dopo le prove, sabato sera l’intera squadra americana sta cenando in hotel, tutti sono a tavola tranne Ronnie. De Coster sale in camera a cercarlo, e lo trova in una stanza invasa da bottiglie di birra vuote, sparse dappertutto. “Tutta la squadra ti sta aspettando a tavola – e chiede ancora – e cosa sono tutte queste birre?”.
Ronnie risponde: “Non preoccuparti, sono tutte dei miei amici. Tranquillo, sarò giù in un minuto”. Lechien arriva a tavola, mangia rapidamente, finisce prima degli altri e se ne va un’altra volta. Le camere dell’hotel erano dall’altra parte del ristorante, e c’era un parcheggio da attraversare, e prima di finire la sua cena De Coster va a controllare Lechien un’altra volta e… “Lo trovo nel parcheggio mentre sta partendo in auto con due ragazze. Lo fermo e gli chiedo: “Che stai facendo? Vengo ad ammazzarti se domani non corri alla grande!” Lechien: “Non preoccuparti RD… sarà tutto a posto”.
La mattina dopo, per esser sicuri della sveglia andarono a chiamarlo in camera, e non fu troppo semplice alzarlo dal letto. Andarono in pista tutti insieme, ma appena Lechien andò dietro il cancelletto di partenza… non ci fu storia per nessuno. Guidò così bene che nessuno riuscì ad avvicinarlo, Ronnie dominò l’intero Nazioni e vinse entrambe le manche. Nel team americano l’avrebbero “ammazzato” volentieri in tanti, ma lui era così. Prendere o lasciare.
1983: debutto nei Pro a 16 anni!
Lo Shuttle vola per la prima volta nello spazio, il mondo si sta avviando inconsapevolmente verso la fine della guerra fredda e nelle moto da velocità King Kenny Roberts insegue inutilmente le nuove Honda 500 Fast Freddie Spencer.
Nel motocross il dominio americano non è una novità. LaPorte e Lackey hanno appena vinto rispettivamente il Mondiale 250 e 500, e il Nazioni è già diventato cosa loro.
Da El Cajon, Southern California, la stessa cittadina di Ricky Johnson, arriva un certo Ronnie Lechien, figlio del co-fondatore di Maxima Oils. Dick Lechien dopo una buona carriera sul quarto di miglio coi dragster, s’appassiona al motocross con una Bultaco, e dopo aver liquidato il suo piccolo team, apre a San Diego un negozio di moto, motori marini e ATV. Piccolo che diventa grande, concessionario Honda e Kawasaki, con un giro di vendite da 2500 moto l’anno. È lui a preparare le moto al figlio fino al 1980, e ovviamente non manca niente. Neppure quando nel 1979 nasce la Maxima Oils.
A 16 anni appena compiuti – dicembre 1982 – Lechien è ingaggiato da Yamaha. Per lui è pronta la nuovissima OW125, un prototipo a disco rotante esclusivo, sviluppato per dar battaglia nella 125 National e Mondiale (con Jacky Vimond e Jim Gibson), contro il dominio delle Suzuki ufficiali, di Barnett e dei belgi Everts e Geboers. Nel National però corrono anche Ward (Kawasaki ufficiale) e O’Mara su Honda prototipo che è forse meglio. Yamaha lo sa, lo affida a Keith McCarty (ex meccanico di Hannah nei suoi sei anni di Yamaha, diventerà team manager di Yamaha USA), e per questo tengono a freno il giovanissimo Lechien nei primi Supercross invernali. Ronnie salta i primi tre indoor perché per Yamaha l’obiettivo è il National, dove l’adolescente andrà a scontrarsi con un veterano come Barnett e i già affermati Ward e O’Mara. Li conosce, li ha già incontrati nelle gare Pro californiane e in qualche Golden State, ma è deciso a batterli. A battere chiunque.
Come oggi, la stagione inizia col Supercross e Yamaha lo tiene fermo le prime tre gare per non darlo in pasto ai tanti fuoriclasse e dalla pressione del debutto. Il livello è alto e sono tanti i campioni in lotta. Anaheim vince Bailey davanti a O’Mara, Glover, Hannah e Howerton. A Seattle, Hannah batte Bailey, Ward, King e Martin, mentre il giorno dopo (una volta nei Supercross c’erano alcune giornate doppie) mette in fila ancora Bailey, O’Mara, Barnett e Breker. Ad Atlanta il 5 marzo arriva il grande giorno per Lechien, e lontano dalla sua California piove a dirotto da giorni, tanto che la pista è davvero una pozza di fango. Ronnie ci prova, ma non riesce neppure a qualificarsi, e guardando Barnett dominare il main event, navigando letteralmente nel fango, pensa che il vecchio Mark sia davvero un “animale”. Il guaio per lui che Barnett è uno dei favoriti nel “suo” campionato, perché con la Suzuki ufficiale è da tre anni dominatore assoluto del National 125. Nei Supercross successivi Lechien si qualifica sempre, a Daytona è nono ma sulla 250 deve ancora trovare un suo spazio in mezzo a tanti campioni. A fine marzo inizia finalmente il National 125, e Barnett a Hangtown comincia subito con una doppietta secca, davanti a Ward e O’Mara. Lechien è sulla nuovissima OW125 a disco, un prototipo in tutto e per tutto ancora non completamente a punto. Due settimane dopo però le cose cominciano a girare meglio e a Saddleback vince O’Mara, davanti a Ward e Lechien sale la prima volta sul podio.
Un altro click è fatto: il sabato successivo il circo si sposta a Dallas (16/4/1983), tappa Supercross, si torna in sella alla 250, Ronnie si qualifica e quando scende il cancello del main event svolta per primo davanti a tutti, anche al compagno di squadra Mike Bell. Senza timori reverenziali lo tiene dietro e riesce a tenere la testa della gara addirittura per cinque giri. Cede anche alla rimonta di Hannah, ma è suo il primo podio anche nel Supercross.
Lechien è la sorpresa del momento. Tutti ne parlano, tutti si interessano a lui, e anche se a Gatorback (125MX) e la due giorni di Pontiac (250SX) non riesce a ripetere il podio, il 22 maggio a Saint Louis (125MX) è di nuovo terzo, dietro a Ward e O’Mara. La settimana dopo – 125MX a Mountain Morris – è addirittura secondo dietro Barnett e davanti a O’Mara, mentre a Birghampton è terzo dietro Barnett e O’Mara. Costante e veloce, bastano ancora sei giorni e si vola a Orlando per il Tangerine SX. Ancora non lo chiamano Dogger, semmai è “TooTall II” perché è già molto alto nonostante i 16 anni, quasi come Mike “TroppoAlto” Bell.
A Orlando trova una pista congeniale, e una serie di grandi salti che nelle prove riesce a far diventare un doppio. Si ferma, si rende conto di averla un po’ rischiata, e osserva gli altri campioni in pista: nessuno tenta il “suo” doppio, e nessuno forse s’è accorto del suo lancio. All’epoca i team non hanno ancora preso l’abitudine di registrare tutto in video per studiare traiettorie e avversari. Lechien si rende conto di aver trovato un piccolo vantaggio, e non si scopre nelle heat di qualificazione. Si qualifica per il main event senza scoprirsi. I venti giri della finale partono bene: Lechien è quarto e quando arrivano i salti grandi tenta subito il doppio volando letteralmente sopra due piloti. Atterra giusto a fianco di O’Mara che guida la gara e cade alla curva successiva. Lechien si ritrova in testa e con un ritmo superiore riesce pure a prendere un vantaggio di oltre 10-15 secondi. È la prima vittoria da professionista, è la prima volta che batte tutti i campioni. Sul podio con lui proprio i suoi diretti avversari del National 125: O’Mara e terzo Barnett. A 16 anni non è più solo un promettente debuttante, ma è una nuova giovanissima star.
È solo l’inizio della sua estate. A Lake Whitney riprende il campionato outdoor e vince ancora davanti a Ward e Barnett. La gara dopo a Red Bud non si ripete ma è secondo dietro O’Mara e davanti a Ward.
Nei due Supercross di Pittsburgh e Foxborough non gira benissimo, ma al Superbowl che chiude il campionato indoor al Los Angeles Coliseum è quarto. Nel National i giochi invece non sono ancora conclusi. Mancano tre prove, sei manche, e servono anche per assegnare il titolo di Supercampione del Wrangler SuperSeries, una specie di grande slam che si assegna con la combinazione di Supercross e National. Se lo stanno giocando Bailey che ha appena vinto il 250SX, Barnett e Glover. Hannah ha vinto più gare ma s’è rotto un polso e ha perso l’estate. A Washougal, Barnett vince con una doppietta, davanti a Ward e O’Mara, mentre Lechien ha qualche problema, ma la settimana dopo a Lakewood è Lechien a dominare con un’altra doppietta davanti a O’Mara e Ward. Ultima domenica di agosto, a Millville si assegnano i titoli. Barnett è fuori dalla lotta per il National 125, ma per vincere il numero 1 giallo su tabella blu (simbolo del Supercampione Wrangler) e il malloppo in palio gli servono un primo e un secondo di classe. Lechien non è d’accordo e chiude il campionato con un’ultima doppietta. Barnett è solo secondo, e per un solo punto perde anche il titolo di Supercampione che va a Bailey.
O’Mara vince il National ma elegantemente riconosce l’onore al campione uscente: “Senza i ritiri per problemi meccanici sarebbe stata un’altra storia. Nessuno deve avere dubbi su di lui, è come Hannah, state sicuri che quei due sanno cosa fare per vincere!” dice ai giornalisti dopo la gara. Incredibilmente la Suzuki di Barnett ha avuto più noie durante la stagione, fermando il veterano due volte quand’era lanciato verso la vittoria: 50 punti in meno per un titolo 125 perso su O’Mara di 21 punti. Che ha goduto più di tutti della migliore affidabilità della sua Honda RC125 (non CR, parliamo delle RC prototipo, nda) e del suo bravo meccanico Jim Felt. Anche Ronnie e McCarty hanno tribolato un po’ a inizio stagione con la Yamaha nuova e l’aggressività del motore a disco rotante. Ma da metà stagione la OW125 di Lechien è sicuramente una buona moto, competitiva e veloce.
Invece, è il canto del cigno: Barnett e Hannah non vinceranno più nessun campionato e si vedono chiare le stelle future. Quella di Lechien splende più di tutte, e il titolo di Rookie of the Year è un riconoscimento dovuto. Roger De Coster e Dave Arnold lo ingaggiano per lo squadrone più forte che Honda abbia mai avuto (Hannah, Bailey, O’Mara, Chandler e Lechien, con Whiting e Hicks supported). Mancano ancora le gare autunnali, ma quando Yamaha viene sorpresa del contratto Honda, ritira a Ronnie moto e meccanico, perché non rientrano negli obblighi contrattuali dei campionati AMA. Col contratto Honda ancora non attivo, la famiglia Lechien non ha problemi a comprare subito un paio di Yamaha per l’ultima gara della stagione. È il Supercross di San Diego, un indoor della serie parallela organizzata da CMC (come oggi la Golden State Series), ma vi prendono parte tutti i campioni ed è la gara di casa per Glover, Johnson, Lechien, che abitano a El Cajon, 15 miglia dallo stadio di San Diego. Lechien padre conosce Mitch Payton, un ex-pilota paralizzato che a 18 anni aveva la ProCircuit e da cinque anni cercava di farsi spazio fra i preparatori americani. Ovviamente non ci sono molte chance contro tanti campioni in sella ai superprototipi ufficiali dell’epoca. Moto che non hanno veramente niente a che vedere con quelle in normale vendita, ma è la gara di casa e Ronnie non vuole stare a guardare. Davanti a tutti gli amici e compagni di scuola ci tiene a fare bella figura, sicuramente ha motivazioni extra e l’ingresso in finale non è problema. È incredibile però vederlo partire in testa – una YZ250 di serie davanti a tutte le moto ufficiali – e Ward, Hannah e Johnson lo inseguono. Lechien prende vantaggio, Ward rompe la catena, Hannah non è ancora a posto fisicamente e quando Johnson rimonta e si avvicina, Lechien non sbaglia e non cede. Lechien firma l’ultima gara stagionale, si congeda dalla Yamaha facendogli direttamente un grandissimo favore perché per la prima volta porta alla vittoria una moto di serie (e per la prima volta ProCircuit vince nel Supercross), e lunedì torna a scuola. Ancora non ha compiuto 17 anni ma per tutti è il destinato. Il nuovo supertalento che dominerà in futuro.
Poi le cose non andranno proprio così, ma questa è un’altra storia.
CHI È OGGI RON LECHIEN?
“Non sono un padre perché non ho figli. Sono un marito, credo un buon marito, e un lavoratore. Continuo a impegnarmi come pilota di motocross. Frequento la società di San Diego e dirigo la Maxima Racing Oils, di cui sono socio. Sono molto soddisfatto perché la compagnia va bene, abbiamo ottimi prodotti, in America siamo i numeri uno per i prodotti racing, e con i nuovi distributori ci stiamo facendo conoscere anche in Europa. Possiamo crescere ancora molto perché prima Maxima Racing Oils non era distribuita in modo capillare. Stiamo migliorando”.
Chi era invece Ron Lechien?
“Era un crazy guy… un ragazzo molto pazzo e con problemi di droga. Era anche un pilota, ma era un pilota che amava le feste e far baldoria. Che gli piacevano le donne e viveva come una rockstar. Yeah, un pilota di motocross che voleva essere allo stesso tempo una rockstar”.
Perché non hai mai vinto un titolo Supercross?
“Probabilmente per una mancanza di preparazione. Io vincevo ma non mi allenavo abbastanza. Io vincevo naturalmente mentre i miei avversari si allenavano di più. Passavo la maggior parte del mio tempo con cattive compagnie. Potevo essere molto veloce per 10 giri, ma se devi esserlo per venti allora devi essere anche molto allenato, e io avevo sicuramente delle lacune sotto questo aspetto”.
Ma la droga è stata il motivo reale di tutto questo? E del tuo allontanamento dallo squadrone Honda dopo i problemi con la polizia nella trasferta 1985 per le gare giapponesi?
“Purtroppo, quel vizio è stata una grande distrazione. Ero in Giappone per le gare dell’All Japan Gran Prix (campionato giapponese che nel finale diventava una passerella per i migliori piloti ufficiali, nda). In quel momento stava iniziando il mio periodo con le droghe pesanti. Era sempre peggio, di male in peggio… e peggio ancora. Avevo provato un paio di volte, mi ero ‘ripulito’ (disintossicato, nda), poi ho ricominciato, e così via…”.
Quindi, dopo l’arresto è arrivato un manager Honda e ti ha comunicato che eri fuori dalla squadra?
“Credo sia stata una parte dei motivi, ma in realtà avevo già firmato con Kawasaki. Loro sapevano che comunque me ne sarei andato. Lo so, di certo non era un bel modo di apparire in Giappone, ma c’erano altre motivazioni. Avrei potuto rimanere più tempo con Honda, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ho creduto che andarmene fosse la scelta migliore e Kawasaki mi aveva offerto un buon contratto. Honda risparmiò anche 25mila dollari con quella faccenda”.
Nella tua carriera, credi di essere stato favorito perché eri il figlio del padrone di Maxima Racing Oils?
“È difficile rispondere. Mio padre aveva un grande negozio di moto quand’ero ragazzino, ed era un bravo meccanico. Le mie moto erano preparate molto molto bene, non si sono mai rotte e potevo allenarmi molto bene. Però mio babbo mi metteva addosso anche molta pressione – ‘vai più forte… andiamo a correre…’ – e dopo continuava a spingermi ad allenarmi, a lavorare più duramente. E spingendomi sempre di più, ha scatenato una ribellione. Continuava a ripetermi quello che dovevo fare e io sono diventato un ribelle”.
Ai tuoi tempi invece chi era invece il più forte? Eravate in tanti: Bailey, O’Mara, Ward, Barnett, Hannah…
“Uaohhh, erano veramente tanti ‘cattivi’, piloti tosti. Ricky Johnson era veramente forte, spesso al top. Wardy (Jeff Ward, nda) era super intelligente, lucido, e allenatissimo. Il migliore, quello più lucido, ragioniere, pensava sempre alla migliore traiettoria, a cosa fare in pista e fuori. Tutti noi eravamo velocissimi, la differenza la faceva l’allenamento. Chi era superallenato, chi rimaneva lucido in gara. Non so indicarne uno solo. Voglio dire… ci sono stati due periodi differenti: quando ero giovane, al mio arrivo nei Pro – 1983 – c’erano così tanti piloti forti in pista che non riesco a indicarne uno solo. Però… forse il 1984 è stato l’anno più duro nel Supercross perché in 250 si sono concentrati tutti i migliori della 125 e della 500 outdoor. Nella stessa classe c’erano i 3-4 migliori di ogni categoria National. Eravamo una decina: Barnett, Johnson, Bailey, O’Mara, Hannah, Ward, Glover, Bowen, Burnworth (e Chandler si era fatto male prima della stagione, nda). Vincere nell’84 era veramente dura. Io vinsi quattro National e feci qualche podio (tre in totale, su dieci tappe National e due soli Supercross AMA)”.
Il tuo nickname Dogger com’è nato?
“In Francia, perché il mio cognome in francese suona come “il cane” (the dog). Nello stesso periodo c’era una società dell’Arizona che mise in vendita una linea di magliette con disegni intitolati al cane: Dog & the girls, Dog & the cars, Dog &… ogni cosa. A me questo nome piaceva, mi sembrava giusto, così l’ho accettato come mio soprannome”.
E la JT ci fece la grafica dalmata per il tuo abbigliamento…
“Hai visto la replica? Hanno fatto quella nuova. Sì… l’abbigliamento dalmata: mi è rimasto nel cuore. Davvero… Non era solo una questione di sponsorizzazione. Mi piaceva veramente”.
Ma l’idea della grafica dalmata è tua?
“No, fu un’idea del design team di JT, che all’epoca era guidato da Marc Blanchard e Ludo Boinnard, i due creativi che fecero grande la JT e ora stanno rilanciando il marchio 100% con degli occhiali molto belli”.
Quattro tempi o duetì?
“Uso una Kawasaki 450 e mi piace quel motore: tanta potenza, erogazione smooth, quando sei sopra non devi “lavorarci” troppo per chiudere un salto o uscire da una curva”.
Ma nelle piste da Supercross non è perfino esagerata la prestazione di una 450?
“È difficile poter rispondere. Certo che guardando i piloti da bordo pista, a vederli guidare senti sempre solo braap… braap… braap… (mima i colpi di gas, nda). Soltanto dopo la partenza ascolti un motore col gas appena un po’ più spalancato: dalla partenza alla prima curva. Poi è tutto un braap! Credevo che la 350 avesse un impatto maggiore nel Supercross, mai ragazzi hanno preferito continuare a guidare la 450, e i piloti sono loro. Forse perché la 450 alla fine ha una trazione migliore ed è più facile”.
Quando il pilota eri tu, preferivi il Supercross 250 o il National 500? O in generale le piste outdoor o indoor?
“Preferivo il Supercross. Era più figo… correre di notte… con meteo migliore e tanti fans, tutti che guardano te… mi piaceva. E per me col mio allenamento (scarso allenamento, nda) era una gara meno dura. Io sono alto e nei salti me la cavavo bene. Adesso le piste sono diventate più difficili e mi piacerebbe riprovarci ancora, ma quel che è fatto… è fatto”.
Ricordi il tuo miglior contratto da professionista?
“Il primo con la Kawasaki: un accordo di tre anni per un milione di dollari, 350mila dollari a stagione. All’epoca era stato il contratto più ricco di sempre. Sì, un buon contratto”.
Complimenti. Più i premi e gli altri sponsor. Sei stato il più pagato della tua epoca!
“Grazie! Sì, erano un sacco di soldi. Un sacco di soldi per le feste!” (e ride, nda).
Impressiona perché erano soldi che tiravano fuori solo e soltanto le Case motociclistiche. Non era l’epoca dei main sponsor, delle bibite alla caffeina!
“Sì, pagava tutto la Kawasaki. Si guadagnava tanto con l’abbigliamento JT, con gli occhiali, e per ogni gara vinta c’erano premi comunque già altissimi: una vittoria del titolo Supercross valeva centomila dollari, diecimila per ogni singola gara (considerare che centomila dollari nel 1985 valevano come potere d’acquisto almeno il doppio di oggi, nda). Oggi però pagano di più: la vittoria del titolo SX vale un milione di dollari e una singola gara sono centomila. Questo grazie agli sponsor. Adesso però guadagnano dei bei soldi i primi 4-5 piloti, gli altri non molto”.
Correre coi prototipi… quelli veri…
“Parli delle moto works?”
Sì, proprio quelle, ma erano davvero così eccezionali rispetto le moto di serie?
“Yeahhh. Le Honda che ho guidato nel 1984 e 1985 erano veramente speciali. Moto che potevano costare all’epoca 180mila dollari almeno. Ogni pezzo fatto a mano, sospensioni speciali. Sì, erano veramente più facili da guidare e il gap con la produzione di serie era grande. Nel 1984 e 1985 Yamaha stava migliorando, anno dopo anno le moto di serie erano arriva a un buon livello. Ma quelle ufficiali erano un’altra cosa”.
Nel 1983 però avevi guidato anche le Yamaha prototipo, specialmente la 125 a…
“La OW a disco rotante! Un’altra buona moto. All’inizio della stagione 1983 non era a posto. Servirono un sacco di prove. Si fecero molti test, anche in Europa (dove correvano Jim Gibson e Jacky Vimond, nda) ma a metà anno era diventata molto competitiva. Riuscivo a partire bene e ho vinto diversi National, credo tre. Veramente una buona moto”.
Qual è stata la miglior moto della tua carriera? Quella che ti è rimasta nella memoria come la preferita?
“Probabilmente la Honda works 250 del 1985 che usavo nel Supercross. Tutte le Honda della stagione ’85. La 125 che usavo nel National era veramente divertente, leggerissima… veramente leggera e con un sacco di cavalli. In curva voltava in modo eccezionale, però la 250 da Supercross… quella era eccezionale, con sospensioni eccellenti. Nel 1985 ho guidato anche la Honda works 500 nel Grand Prix americano. Crazy! Aveva così tanta potenza che era una pazzia da guidare. Tutte moto realmente eccezionali”.
Le altre moto ufficiali – Yamaha, Kawasaki e Suzuki – non erano allo stesso livello in quella stagione?
“Ahhh, c’era una piccola differenza. Le Honda erano le migliori di certo”.
Quindi, la peggiore? La moto che ti è piaciuta meno?
“Sicuramente la Kawasaki ufficiale dell’anno dopo, la 250 del 1986. Per me non andava così bene”.
Adesso quando vai in pista? Giri spesso?
“Lavoro quattro giorni la settimana. Poi faccio un weekend lungo. Cross, golf, pesca. Una volta a settimana ci vado. Non faccio tante gare, giro più spesso per divertimento coi miei amici. Sono belle giornate, che trascorriamo con tre-quattro manchettine assieme. In piste con tanti salti, perché mi piacciono i salti. Non così grandi come quelli che fanno adesso nel Supercross, ma mi piace volare, i lunghi doppi. Stare in aria è divertente per me”.
Piuttosto, qualche volta ti capita di insegnare?
“Sì, è divertente. Qualche volta faccio un po’ il maestro. Qualche consiglio ai figli dei miei amici o di qualcun altro. È piacevole”.
Dei tuoi anni di pilota professionista, cosa ti capita di sognare ancora la notte?
“Ho avuto tante belle vittorie ma una vittoria speciale è stata il Supercross di San Diego (1983, nda) davanti a tutti i miei amici di scuola venuti a vedermi. Quella è stata davvero grossa per me. Il Nazioni in Francia è un altro ricordo bellissimo. Un’altra grande vittoria. Non c’era in palio del denaro, ma l’orgoglio di esser parte della squadra. Ma ogni volta che ho vinto ho avuto belle sensazioni, e sono state belle anche le gare qui in Italia. Quelle di Maggiora… i Masters di Maggiora. Dove ho vinto nonostante la ruota anteriore forata. Bella pista Maggiora. Mi piacerebbe rivederla, tornare a farci qualche giro”.
Di tutte le battaglie con i tanti avversari, con chi hai avuto i duelli più duri?
“Probabilmente Ricky Johnson. Abbiamo vissuto una grande rivalità, forse perché si viveva nella stessa città, forse perché ho vinto prima di lui anche se ero più giovane. Avevamo stili diversi e un diverso approccio. Lui era molto preparato, molto forte e guidava in modo fisico. Io ero più smooth e con più distrazioni. Sì, credo sia stato Ricky Johnson”.
Già, e con Ricky qualche incomprensione è finita a mani in faccia. Chi è stato invece un avversario sì, ma anche un amico fuori dalla pista? Con chi hai avuto le migliori relazioni?
“Con tanti piloti sono stato bene, anche se non ho passato molto tempo insieme. Ognuno aveva le proprie cose da fare. Con una persona amabile come David Bailey sono andato molto d’accordo. Ti dico Jeff Ward, e anche con Ricky Johnson. Poi con quelli più giovani come Jeremy McGrath, Ryan Hughes e con tanti ragazzi del freestyle. Per Maxima Oils e One Industries ho contatti con tanti giovani ed è sempre positivo”.
Qualcuno è diventato un vero amico? Oppure sono sempre rimasti comunque degli avversari?
“Son sempre stati dei competitor. Ora con Ryan Hughes il legame è diverso. Un vero amico. Ma quand’ero pilota ognuno aveva il suo personale programma, ognuno voleva vincere e non c’era tempo e modo per stare insieme. Però con tutti i miei avversari ho avuto rapporti amichevoli”.
Pensi di esser stato più popolare, più personaggio in USA o in Europa?
“Difficile da dire. Credo in entrambi i casi. Sapevo di avere molti fans in Europa, e ne ho ancora tanti. Come ho ancora tanti fans in America. Sì, credo di avere avuto molti tifosi sia in Europa che a casa, e sono felice di questo”.
Significa che hai lasciato un bel segno. E quanta nostalgia hai oggi quando ripensi al passato?
“Yeah… è difficile da dire. Oggi sono più vecchio e maturo e quando ripenso al passato vorrei cambiare qualcosa. Prenderei le situazioni un po’ più seriamente. A quel tempo ero veramente giovane, con un sacco di soldi nelle mani. Nella mia testa volevo correre, e quand’ero in pista pensavo e volevo correre. Però fuori dalla pista avevo tante distrazioni. C’erano le feste, le donne, rra tutto così divertente che gareggiare diventava secondario. Ora ho capito e metterei davanti il racing e, solo dopo, le feste e tutto il resto. Ma sono felice. Sono nel libro dei record, nell’albo d’oro, ho vinto un campionato e quando ho iniziato a correre nel motocross volevo vincere il National 125. Ci sono riuscito e tutto il resto che è venuto è stato un extra per me. Forse avevo fissato il mio obiettivo troppo in basso (e sorride, nda) ma ho vinto il mio campionato”.
Hai vinto tanto ma a questo punto – visto che tua moglie non ci sente – mi viene un dubbio: hai conquistato più gare o più ragazze?
“Sono felice ed ero felice. Ero parte della mia banda e ci divertivamo tanto. Non mi son rotto troppo le ossa e ho avuto tanti bei momenti. Credo di esser stato un ragazzo fortunato. Sì, ho rotto malamente la mia gamba ma tutto sommato credo di avere avuto una buona carriera”.
Non hai risposto però alla domanda… più vittorie nelle gare o con le donne?
“Ahah… la seconda che hai detto”.
(images Zep, special thanx to Racer X)