2011-2015. KTM Supercross Story (prima parte)
di Max Mones
Ci sono voluti dieci e passa anni, mica una passeggiata, ma alla fine ce l’ha fatta. Non tutti sanno che in America KTM batte il ferro da tempo immemore
Probabilmente ci si ricorda di un suo impegno massiccio dal 2011, con l’entrata in scena di sua maestà Roger De Coster in un nuovo team full factory, in verità l’excursus della Casa di Mattighofen per entrare nel blindato mondo degli States risale a molto prima. Justin Brayton, Martin Davalos, Wil Hahn, Billy Laninovich, Matt Goerke, Jeff e Mike Alessi, Ryan Sipes, Josh Hansen, Nathan Ramsey, Mike Brown, Tommy Searle e Phil Nicoletti sono tra i tanti passati da quelle parti ancor prima del 2011, quando le strategie del boss Stefan Pierer sul suolo americano hanno preso una piega molto più aggressiva.
Ripercorriamo insieme le tappe degli ultimi cinque anni (2011-2015) della scalata di KTM verso il primo, storico titolo AMA Supercross 450. In questo flash back ci accompagna uno dei personaggi chiave di quella folle operazione, Pit Beirer, “mens et manus” di tutto il Motorsports KTM globale.
2011. Prima stagione Supercross del Red Bull KTM Factory Racing Team con Short (6°), Mike Alessi (12°) in 450 e Roczen (6°) in 250 West.
“Nel gennaio 2010 andai in America su richiesta di Stefan Pierer per sincerarmi su cosa non funzionasse nonostante il buon budget a disposizione per il racing. Dopo il mio incidente, per sette anni non ero più stato negli States, al mio arrivo trovai una situazione disastrosa. In Europa vincevamo Campionati, là zero. Non dimenticherò mai quella visita al team di allora, il Muscle Milk/MDK/KTM Racing. Fu uno shock costatare come erano gestiti l’officina, i camion, i piloti e tutto il resto. Un totale disastro. Dovevamo a ogni costo uscire da quel circolo vizioso e quello fu il capitolo finale di anni di tentativi di sfondare in America andati a vuoto. Stando dall’altra parte dell’oceano non capivamo bene cosa stesse succedendo. Pochi giorni dopo tornai in Austria, in America con me era venuto anche Robert Jonas, oggi responsabile di Husqvarna Motorsports. Ci si domandava come cambiare la situazione, e agire subito. Innanzitutto, il nuovo progetto doveva essere diretto da un responsabile di livello. Dall’Austria non sarebbe stato possibile farlo, le strategie che in Europa davano risultati, in America non erano applicabili. Sono modi di pensare diversi, ci sono in gioco altri fattori, piste, temperature, mentalità. Fortunatamente sulla nostra strada incontrammo Roger De Coster, di sicuro il punto più importante di tutto il progetto di rilancio di KTM negli USA”.
Come avete fatto a convincerlo a passare a KTM?
“Giravano voci che De Coster non era più contento di stare in Suzuki. Ogni anno era diventato sempre più difficile il rinnovo del contratto, lui era stanco di tutto ciò, ma ancora super motivato di fare il suo mestiere. Lo chiamai, mi disse che stava prendendo un volo per una gara in Colorado. Lo stesso giorno presi un aereo per raggiungerlo. Era il giugno del 2010, nel National era primo con Dungey, ma lo trovai comunque molto giù di corda. Mi accordai con lui per parlarne la sera stessa al suo hotel, e lì si aprì uno spiraglio importante. Il giorno dopo sarei dovuto tornare in Germania, Roger mi disse che avremmo avuto una chance solo se avessimo fatto una serie di cose. Mi presentò una lista infinita di punti e di persone che un po’ mi spaventò. Di ritorno verso casa, a Francoforte persi la coincidenza col volo per Strasburgo e nell’attesa telefonai a Stefan Pierer per comunicargli l’esito del viaggio e presentargli il… conto. Nonostante il budget per la stagione successiva fu già stabilito, dovevamo cogliere quella chance al volo. Ora o mai più. Pierer non ci pensò un secondo. Disse ok, vai e concludi. Il giorno dopo chiamai De Coster, per lui fu uno shock. Pensava avessimo bisogno di un paio di mesi per organizzarci, invece, avevamo deciso dal mattino alla sera. Credo che da quella risposta immediata avesse capito il fuoco che avevamo dentro. C’era però un ultimo scoglio: Roger sarebbe venuto con noi a patto che avremmo ingaggiato anche il suo capo tecnico Ian Harrison. Okay, va bene, prendiamo anche lui. Non c’è problema, dissi. Per concludere con De Coster saremmo stati disposti a firmare tutti gli anni di contratto che avrebbe voluto. In questa trattativa ci fu una perentesi piuttosto buffa: né De Coster né Harrison avrebbero dato l’ok senza prima vedere la firma sul contratto dell’altro. Alla fine, tutto si risolse, ma pregai ore davanti al fax aspettando la loro risposta. Fu il passo più importante del nuovo progetto.
Penso che Roger avesse firmato senza effettivamente capire bene tutte le conseguenze, la lontananza con la Casa madre non aiutava nell’organizzazione delle moto, dei ricambi, dei tempi di risposta. In quel momento avevamo solo la 350, la 450 non era ancora pronta. Tre mesi dopo avevamo letteralmente raso al suolo tutto il passato di KTM in America, ricostruito nuove fondamenta per iniziare una nuova era. Il primo ordine di ricambi per l’America fatto da Roger mandò letteralmente in tilt la rete europea. Per far prima, spedimmo tutto via aerea, al primo anno avevamo in squadra Short e Alessi ma capimmo subito che la 350 per l’America non funzionava. A Roger mancò tantissimo non salire mai sul podio. Dovevamo fare una nuova 450!”.
E come avete fatto l’anno dopo a convincere Dungey?
“Senza Roger non avremmo avuto chance. Dungey è venuto da noi solo grazie a lui, l’anno prima in Suzuki senza Roger e Ian Harrison fu il più sofferto per Ryan. De Coster lo voleva in squadra già nel 2011, ma decidemmo di non prenderlo, non eravamo pronti. Se Dungey fosse venuto subito e poi ne fosse rimasto deluso, lo avremmo perso per sempre. Decidemmo quindi di aspettare, per poi provarci l’anno dopo. Lo sforzo aziendale per produrre la nuova 450 fu incredibile, in tempi record riuscimmo a spedire via aerea tutte le 400 moto per l’omologazione americana, lo stesso facemmo con la 250. E quando nell’agosto 2011 si presentò l’occasione di far provare il prototipo a Dungey, la moto era di un altro livello. Quella moto aveva tante idee di De Coster, grazie a lui la 450 ebbe uno step enorme. E poi anche grazie a Dungey, al quale cercammo di mostrare con le nostre motivazioni quanto fosse importante per il nostro progetto. Non fu una questione di budget, con Roger e con Dungey sono sempre stato onesto, dissi loro che la moto per vincere sarebbe arrivata ma solo a gennaio dell’anno nuovo, e di contare sul fatto che in Austria ci sarebbe stato un gruppo di ingegneri che all’occorrenza avrebbe lavorato 24 ore al giorno per il progetto. Anche Dungey si prese i suoi rischi, come tutti noi del resto. Il nostro know-out veniva dal Motocross e dai Rally, non dal Supercross, bisognava capire come e cosa fare per l’America. In questo senso Roger fu molto prezioso, diede le giuste indicazioni per realizzare la nuova moto e allo stesso tempo rimase molto sorpreso della nostra celerità di risposta. Impegno al 100% di tutta l’azienda, dalla proprietà fino alle maestranze: solo così potevamo raggiungere certi risultati”.
È vero che in alternativa a Dungey avevate pensato a Stewart?
“Sì, parlammo con lui e il suo manager, ma alla fine decidemmo per Dungey. Stewart sarebbe stata una buona operazione di marketing, ma i risultati a fine anno non erano certi. Dungey, invece, avrebbe dato più stabilità al nostro progetto, era il pilota perfetto, capace di fare un terzo in Campionato anche con una moto non ancora al top. Diversamente, Stewart non ci avrebbe dato le stesse garanzie, troppo difficile avere indicazioni da un pilota che cade spesso”.
2012. Ingaggio di Dungey in 450, confermato Roczen in 250 e traslocato Musquin dal Mondiale MX2 al Supercross. Anno eccezionale: Dungey 3°, Roczen 2° (East) e Musquin 3° (West). Ma, soprattutto, la prima storica vittoria di KTM in un Supercross 450 a Phoenix.
“Quella notte ero in montagna al compleanno di Kinigadner. Mentre stavamo dormendo arrivò la telefonata di Roger, fu una sensazione pazzesca. Quella notte successe qualcosa di veramente grande. Sapevano di averci messo l’anima, quella fu la risposta che eravamo sulla strada giusta. Se Dungey non si fosse rotto la clavicola in un test (saltò cinque gare, nda) forse avremmo potuto combattere per il titolo già quell’anno. La moto era il massimo, per realizzarla Roger attinse dalle esperienze precedenti con Yamaha, Honda e Suzuki, un vero gioiello, di peso si avvicinava molto alle giapponesi. Non nego che in tutti quei mesi fui piuttosto teso, l’investimento KTM fu davvero importante, avevamo riorganizzato tutto il personale, l’officina, camion, piloti, tutto. E in America per vendere le moto devi vincere le gare. Negli stadi ci sono decine di migliaia di spettatori, anche 70.000, tutti potenziali clienti. Onestamente, vincere già alla seconda gara sorprese anche noi. Solo con l’ingaggio di De Coster tutto il mercato era attento a capire cosa avrebbe fatto KTM. Per farti un esempio: le 400 moto SXF 450 spedite in America per il 2011 le abbiamo vendute tutte in un giorno, quando l’anno prima non riuscimmo a fare tanto in 12 mesi. Dieci mesi dopo la firma di De Coster il mercato ebbe un’impennata pazzesca. Lo stesso successe dopo la prima vittoria di Dungey. Dal gennaio 2012 ad oggi (2015), ogni anno abbiamo fatto in America +20% di vendite, in un momento in cui essere stabili e non perdere quote di mercato è già di per sé un successo. Quando iniziò il nuovo progetto KTM USA il nostro prodotto cross aveva il 6% del mercato americano, oggi ne ha il 23-24%. In totale, il prodotto KTM fuoristrada detiene quasi il 60% del mercato statunitense. Ciò nel tempo ci ha permesso di investire sempre più nell’attività racing. Per un manager come me è una grande soddisfazione. In KTM prendiamo dei rischi, perché nel business niente è sicuro. Mister Pierer è un po’ come i nostri piloti, lui vuole vincere, così si prende anche qualche azzardo. E questo mi piace”.
2013. Stesso team vincente, ma ancora meglio in termini di risultati: Dungey 3° in 450, Musquin 2° nella 250 East e Roczen 1° della West. Primo Campione Supercross della storia KTM.
“È il risultato di un percorso step by step. Niente succede in una notte. Come un puzzle, un pezzo alla volta. Anche Ken è stato molto importante per noi in America, una piccola star del Motocross che ha vinto il Mondiale e fatto altrettanto nel Supercross. In qualche modo ha dato più motivazioni a Dungey, malgrado poi il 2013 sia stato un anno complicato per Ryan. Lamentava problemi di setting delle sospensioni, non era mai soddisfatto, cercava sempre il click, gli mancavano le certezze dell’anno prima, forse è stata anche colpa nostra averlo assecondato troppo. Continuava a fare test su test, dimenticandosi però che sapeva andare in moto. Tony Cairoli, per esempio, non pensa mai alla moto, lui prende e va. O come Ken stesso nell’anno del titolo Supercross, pensava solo a dare gas. Nel 2013 questo non successe a Dungey, credo avesse perso un po’ di fiducia nei suoi mezzi. Comunque sia, il terzo posto fu la dimostrazione che KTM non era più la quinta incomoda dopo le giapponesi. Quando con Pierer prendemmo questa decisione, dissi che avrei provato a dimostrare la nostra competitività contro i giapponesi, ma che non avrei garantito nulla. Poi ci vuole anche un po’ di fortuna. E quando raggiungi questi livelli, rappresenti un’alternativa per un pilota buono. Cinque anni fa nessuno si era fatto avanti per correre con noi, eravamo parcheggiati ai margini del paddock. Oggi è l’esatto contrario, KTM è rispettata da tutti”.
2013. Anaheim3, altro giorno storico: KTM vince sia in 450 con Dungey sia in 250 con Roczen.
“Già era difficile vincere con un pilota, figuriamoci con due. Quella sera sbancammo l’Angel Stadium. La mattina dopo mi svegliai raggiante. Un altro tassello aggiunto al nostro progetto. Avanti così!”.
2014. Stessi piloti, ma con Roczen passato in 450 e subito vincente alla prima di Anaheim. Ve lo aspettavate?
“Non posso dire di no, perché Ken ha fatto cose incredibili. Lo avevamo visto con la 450 girare aggressivo, a velocità c’era. Forse i dubbi erano più sulla tenuta fisica, ma la motivazione ha fatto la differenza. È stato bello per noi salire sul podio con un ragazzo giovane. Il passaggio di Roczen alla 450 e subito la vittoria alla prima gara ha forse un po’ destabilizzato Dungey. Ma tutto il ‘pacchetto-Roczen’ era forte: gli amici in Fox, Aldon Baker come personal trainar, tutto l’entourage di Ken puntava alla spettacolarizzazione del personaggio, invece Dungey è un ragazzo semplice, non ama i riflettori. È molto simile a Musquin, pensa al lavoro e basta. Ken è più ‘showman’, però questo ha rappresentato per lui un problema. Prendi ad esempio il National 2013, Tomac ha sempre passato Ken negli ultimi 3-4 giri. Vuol dire che Roczen non era preparato. Per lui invece il problema era la moto, le sospensioni non gli andavano mai bene, tutto il giorno a parlar male delle nostre forcelle. Questo in qualche modo ha condizionato le certezze di Dungey e pure di Musquin. A fine 2013 la situazione nel team non era tranquilla, già allora Roczen aveva pensato di andare via. Gli ho fatto capire che poteva andarsene, non lo avrei costretto a restare controvoglia. KTM ha bisogno di un’immagine positiva. Dopodiché ha vinto il Nazioni a Teutschenthal. Incredibile se pensi che passai il sabato a litigare col padre che gettava merda sulla nostra moto. Ken è un buon pilota, ma anche le nostre moto lo sono. Secondo alcuni test, Aldon Baker sosteneva che Roczen in quel periodo non era a posto fisicamente, le forcelle non c’entravano nulla. E la vittoria ad Anaheim1 è la dimostrazione che Roczen, una volta rimessosi in forma, poteva vincere anche con le KTM. Naturalmente la sua stagione 2014 ha avuto alti e bassi, si era allenato molto più intensamente rispetto al 2013, era partito fortissimo, poi verso metà Supercross ha cominciato ad accusare un calo fisiologico. Ma la situazione nel team era tornata sicuramente più serena. Lo si è notato nel National dove Roczen e Dungey hanno lottato fino all’ultimo senza problemi di moto. Il 2014 è stato un anno importante per vincere oggi. Anche senza Ken”.
Quanto vi è pesato lasciarlo andare via?
“Ho provato a convincerlo con tutti i mezzi, ho sempre immaginato Roczen nel futuro KTM. Non era una questione di soldi, già a fine 2013 aveva pensieri per la testa. Con Roczen abbiamo vinto tre titoli importanti (MX2, SX 250 e National 450, nda), ma continuare un altro anno avrebbe probabilmente incrinato i rapporti per sempre. Quando è andato via non ci ho perso il sonno, ma il rischio che vincesse con un’altra moto c’era. Però fino all’ultimo siamo stati corretti con lui, sapevamo da tempo che ci avrebbe lasciati, eppure nelle ultime sette gare di National gli abbiamo dato lo stesso supporto al 100% per vincere il Campionato. Come del resto a Dungey. Che vinca il migliore, ci siamo detti! Mi sono solo dispiaciute alcune sue dichiarazioni fatte a dicembre in cui asseriva che le cause della separazione con KTM erano legate a problemi di telaio e di sospensioni delle nostre moto. Quelle dichiarazioni ci hanno ferito, per Roczen ci siamo fatti in quattro. Ma in fondo lo capisco, è giovane, deve provare cose nuove. Ha trovato questa situazione con Carmichael, Carey Hart, più un bel po’ di soldi. So che Pink, la moglie di Hart, gli ha messo a disposizione il suo jet privato per assistere a un suo concerto dal backstage. Per un ragazzo della sua età è una forte tentazione, che noi non potevamo offrire. Noi abbiamo team, moto, budget e tanto cuore. Mica lo show. In Austria ci sono 150 persone che lavorano per il Motosports KTM, e tutte si sono rimboccate le maniche per metterlo in difficoltà una volta passato in Suzuki. Agonisticamente parlando, mettersi contro KTM non è mai facile, ma lungi da me dal volergli male. Ken è un bravo ragazzo”.
Infatti, il titolo SX alla fine l’avete vinto voi, non Roczen…
“Non nego che una certa preoccupazione quando è andato via l’abbiamo avuta, però ad Anaheim1 ci siamo presentati con una moto di 4,8 chili più leggera di quella di Ken e con un pilota, Dungey, tra i più costanti. Questo fa di Ryan un avversario molto pericoloso. Per metterlo nelle condizioni di vincere abbiamo letteralmente stravolto il progetto 450, è una seconda generazione di moto realizzata in stretta collaborazione fra il Motorsports e l’R&D di KTM. Grazie al motore più leggero ma più potente, Dungey entrava meglio anche nelle curve strette e usciva molto più rapidamente”.
Quando a Houston avete vinto il Supercross cosa ti è passato per la mente?
“Per un istante ho avuto un vuoto totale. Il momento più bello è stato a fine cerimonia, con lo stadio completamente deserto. In pista ero solo e mentre stavo osservando i 70mila seggiolini, mi sono detto: ‘siamo arrivati’. È stato un momento magico. Nella storia di KTM ci sono molte pietre miliari, come il primo Mondiale vinto con Tony e la 350, o il primo titolo in Moto3. Ma il Supercross è una di quelle sfide che non puoi capire. Come avere davanti una montagna da scalare, sai quando parti ma non sai se arrivi. E quando sei in cima, la sensazione è impagabile”.
Credi che l’addio di Roczen abbia in qualche modo fatto bene a Dungey?
“Mentalmente credo di sì, pensa solo al fatto che tutto il team ha lavorato esclusivamente per lui. Dungey è cambiato anche dal punto di vista fisico. Ancora oggi non capisco perché Roczen abbia lasciato Aldon Baker. Con Baker, Dungey è migliorato non solo fisicamente, è diventato molto più forte anche di testa. Noi possiamo fare molto per il pilota, il 95%, mettendogli a disposizione i mezzi migliori, due piste Supercross private, camion, moto, team. Tutto. Tranne l’ultimo 5% che deve venire dalla sua testa”.
2015. Primo titolo SX 450 dopo cinque anni. Ci siete riusciti secondo i vostri programmi?
“Quando inizio un progetto nuovo chiedo sempre in KTM tre anni per arrivare al top. Penso che il terzo anno sia già possibile battersi per il Campionato, poi però ci vuole anche un po’ di fortuna. Ma se guardo alle difficoltà incontrate in questi anni, mi dico che il 2015 era l’anno giusto per vincerlo”.
(images KTM/Cudby)