DONNIE HANSEN. BREVE MA INTENSO
di Eric Johnson
In un solo anno Donnie Hansen riuscì a realizzare tutto il meglio della sua fugace carriera.
Nell’arco di 350 giorni e 20 gare, Donnie “Holeshot” Hansen fu senza ombra di dubbio il più grande pilota di Motocross e Supercross del Pianeta Terra. Tutto iniziò il 13 settembre 1981 quando lui e i suoi compagni nel Team USA – Chuck Sun, Danny LaPorte e Johnny O’Mara – vinsero in modo convincente per la prima volta nella storia degli Stati Uniti il Motocross delle Nazioni sulla scivolosa pista di Bielstein, nella Germania Ovest.
Poi, nell’82, tutto andò a meraviglia per il pilota del Team Honda che si aggiudicò la sua prima gara importante, nonché apertura dell’AMA/Wrangler Supercross Series – il Miller High Life Supercross KickOff – dentro un Anaheim Stadium tutto esaurito. Da quel momento in poi il sud californiano prese il controllo della situazione, conquistando i titoli AMA Supercross e National 250 di quell’anno.
L’ultimo riconoscimento di Donnie Hansen di quel memorabile ’82 cadde domenica 29 agosto quando dominò entrambe le manche del Gran Premio di Svezia classe 250 a Vimmerby. Soli pochi giorni dopo aver lasciato la Svezia – giovedì 2 settembre – la carriera di Donnie Hansen finì di colpo proprio mentre era al suo apice. “Ci fu un solo anno buono per me – ricorda Hansen seduto in un ufficio della Monster Energy a Corona, California -. Nel 1982 vinsi la mia prima gara e pure l’ultima”.
Gli inizi con Can-Am
Donnie Hansen è nato a Simi Valley, California, il 10 marzo 1959. Frequentava la Royal High School quando nei primi Anni ‘70 s’interessò alle gare di motocross. Iniziò a correre con una Maico prima di entrare nel programma Yamaha. “Ero un pilota supportato. Uno dei tanti, un numero – continua Hansen -. Correvo per Larry Shoemaker dell’omonima concessionaria Yamaha, ma non ricevevo abbastanza aiuto. I telai si rompevano di continuo, bisognava saldarli, finché non si rompevano di nuovo.
Poco tempo dopo ebbi l’opportunità di correre con il supporto di Can-Am. Con alcune persone a me vicine discussi pro e contro. Siccome Can-Am era un piccolo costruttore, probabilmente avrei potuto ottenere più supporto di quanto Yamaha fosse in grado di garantirmi. Alla fine decisi di correre per Can-Am e andai pure molto bene. Vinsi un sacco di gare a livello locale”.
A bordo di un furgoncino, Hansen si diresse sulla costa est per partecipare all’importante Florida Winter-AMA Series, non prima di aver fatto visita a piste come North Florida Raceway, Sunshine MX Park, Orlando Sports Stadium e Gatorback.
“Io e Greg Robertson correvamo per Can-Am – spiega Hansen -. L’allora team manager Bob Baker voleva che partecipassimo alla Winter Series. Viaggiammo per circa 2.500 miglia. Le piste su quella costa erano piuttosto brutte, scavate, un vero inferno. Durante la settimana facemmo un sacco di test. Alla Florida-Am non diedi purtroppo il massimo, ma trascorsi tre mesi a imparare a guidare su quei terreni sabbiosi. Al punto che sulla strada di ritorno fui consapevole che nelle gare del Sud California avrei potuto vincere: la sabbia mi aveva letteralmente preso a calci in culo. E infatti, una volta tornato a casa, fu così. Iniziai a vincere a Indian Dunes, Saddleback, Escape Country, De Anza. E, se non vincevo, alla peggio ero nei primi”.
Chiamata Honda
Al Coliseum Supercross del ’79 a Los Angeles, in quella che può essere individuata come la gara che lo ha messo sotto i radar dei team manager delle squadre ufficiali, Hansen e la sua Can-Am ottennero un altamente competitivo settimo posto.
“Fu la mia prima gara in uno stadio, arrivai dietro a Jim Gibson e Marty Tripes. Ero intimorito dal fatto di correre contro alcuni dei migliori piloti al mondo, ma chiusi la finale al settimo posto e primo dei piloti privati. Fu allora che arrivò la chiamata. Jeff Smith, che nel 1964 e ’65 vinse con BSA il Campionato del Mondo classe 500, voleva mettermi sotto contratto per l’anno dopo con la Can-Am ufficiale offrendomi 10.000 dollari. Naturalmente risposi di sì, ci stringemmo la mano fino a quando non avremmo concluso ufficialmente l’accordo.
Ironia della sorte, poco dopo mi chiamò Honda per propormi la stessa identica cosa, solo che mi avrebbe pagato addirittura il doppio. Senza farmelo ripetere due volte accettai, ma prima avrei dovuto risolvere una questione. Richiamai Jeff Smith, lo ringraziai e gli dissi che con Can-Am non se ne sarebbe fatto nulla. Me ne disse dietro di ogni. Ci rimasi male, ma sapevo che era la cosa giusta da fare”.
Assunto da Gunnar Lindstrom per correre nell’80 sotto l’ala del Team Honda ufficiale, Hansen disputò un totale di 14 gare, contendendosi il podio in ognuna di esse. “Il primo anno con Honda sapevo che certi piloti erano molto veloci, ma non immaginavo quanto. Avevo bisogno di imparare a correre su alcune piste. Finii ottavo nel Supercross soffrendo parecchi problemi alla caviglia. Avevo un contratto di un anno e dopo quella stagione Honda mi confermò per altri due”.
Nell’81 Hansen salì sul terzo gradino del podio in molte occasioni sia nel Supercross che nel Motocross. “Quell’anno conclusi sesto il Supercross, mentre nell’outdoor finii terzo dietro Kent Howerton e Bob Hannah. Ma non li vedevo nemmeno, erano troppo più veloci di me”.
Gli USA nella storia
Quello stesso anno Hansen divenne grande amico di Johnny O’Mara, che passò da Mugen a Honda. “Io e O’Mara ci trasferimmo a Canyon Country. Lui viveva a Van Nuys, ma eravamo entrambi di Indian Dunes. Acquistai la mia prima casa proprio a Canyon Country e iniziammo ad allenarci assieme. Ci spronavamo a vincenda, che fossimo in pista, in palestra o da qualsiasi altra parte. Non facevamo altro che spingerci l’un l’altro”.
Il duro lavoro e la tenacia avrebbero dato enormi frutti quando Hansen e O’Mara, così come Danny LaPorte e Chuck Sun, furono invitati a correre sia al Trophèe des Nations classe 250 sia al Motocross des Nations classe 500. Infortuni e questioni politiche a parte, i migliori piloti americani selezionati dell’epoca – tra l’altro tutti ufficiali Honda – conquistarono entrambi i titoli Mondiali a Squadre. “Glover, Hannah, Bell eccetera eccetera non vollero andare a correre i Nazioni. Roger De Coster disse che i ragazzi del suo Team Honda sarebbero stati ben felici di rappresentare gli Stati Uniti. Partimmo per l’Europa senza tuttavia la convinzione di vincere, solo la consapevolezza di fare esperienza”.
Fino a quel momento della sua giovane carriera, Hansen non era mai stato in Europa. “Era la prima volta che ci andavo. Andammo prima a Lommel, in Belgio, la pista più pericolosa che potesse esistere. Irreale. Faceva veramente paura. Demmo il meglio delle nostre possibilità e ne uscimmo alla grande”.
Nel più grande sconvolgimento della storia del Mondiale di Motocross, Hansen, O’Mara, Sun, LaPorte e le Honda RC250 dominarono il Trofeo delle Nazioni in quell’inferno di sabbia. “Avevamo fatto la storia. Per la prima volta dei piloti americani avevano battuto gli europei in casa loro – spiega Hansen -. Qualcosa su cui riflettere per cercare di battere il meglio di tutto il mondo anche al Motocross delle Nazioni. Il Team USA di secondo livello, come presumibilmente eravamo, aveva sconfitto i migliori europei. Fu grandioso”.
Una settimana più tardi il Team USA si presentò a Bielstein, nella Germania Ovest, per quello che sarebbe stato il suo primo Motocross delle Nazioni di sempre. Sin dall’anno di istituzione (1947) l’AMA non aveva mai mandato un team in rappresentanza degli Stati Uniti. “La gente a bordo pista ci applaudiva per quanto stessimo facendo bene contro i migliori piloti al mondo nonostante partissimo da sfavoriti”.
Il secondo posto di Hansen nella prima manche con una Honda RC500 – moto di cui non conosceva praticamente nulla – fu un risultato grandioso per il Team USA. “Vinse Hakan Carlqvist ma ricordo di essere caduto all’uscita di una curva per via del gas impazzito. La 500 mi disarcionò letteralmente dalla sella. Riuscii a risalire al volo senza perdere la seconda posizione”. Alla fine dei giochi, il Team USA vinse anche il Motocross delle Nazioni sulla Gran Bretagna per un solo punto.
Magico 1982
Ripartito dall’Europa con ben due titoli Mondiali FIM a Squadre, Hansen iniziò a puntare sulle gare dell’82 che avrebbe preso il via dall’Anaheim Stadium di Orange County, California. “Sapevo che sarebbe stata una stagione molto dura – sottolinea Hansen -. Più di 70mila spettatori erano lì ad assistere alla prima del Supercross. Quella sera corsi con intelligenza, ogni cosa funzionò alla perfezione. Avevo la gente giusta attorno a me, la moto perfetta e alle spalle un gran lavoro”.
Hansen si aggiudicò la prima Supercross davanti a Jeff Ward e all’amico O’Mara. Due settimane dopo vinse anche la prima delle due serate di Seattle (13-14 febbraio). “La seconda sera avevo guidato meno sciolto, ero teso, e arrivai sesto. Anche se eravamo all’inizio di stagione, pensai che avrei dovuto correre con intelligenza, partire bene e portare a casa punti senza strafare. Quell’anno molti dei piloti in pista avrebbero potuto vincere in qualsiasi momento. C’eravamo noi di Honda, io, Chuck e Johnny. C’erano gli ufficiali Suzuki, quelli Kawasaki. C’erano Bell, Glover e Ricky Johnson di Yamaha. Ognuno poteva vincere. Occorreva, quindi, essere intelligenti, partire bene e correre col cuore”.
Nei round di Atlanta e Daytona e nel doppio appuntamento all’Astrodome di Houston, Hansen mise insieme ottimi piazzamenti (2°-4°-2°-4°), prima di prepararsi per le prime gare dell’AMA Nationals 250 ad Hangtown, Saddleback e Lake Whitney. Afflitto da sfortune e problemi meccanici, i primi due round in California non andarono come programma. Si classificò entrambe le volte 9°. Poi in Texas arrivò la sua prima vittoria. “Nella prima manche a Lake Whitney sentivo la ruota posteriore pattinare e arrivai terzo. Un tecnico Dunlop se ne accorse, dopodiché mandai il mio meccanico di allora, Brian Lunniss, a prendere uno pneumatico specifico che mi piaceva molto e me lo montò. Alla seconda manche partii davanti a tutti e non ce ne fu per nessuno”.
Sei giorni dopo Hansen vinse entrambe le serate Supercross al Pontiac Silverdome. “Ai tempi nella stessa stagione si alternavano gare di Supercross a quelle di Motocross. Molto diverso da oggi. Ora si inizia con il campionato indoor, lo si finisce e poi si ricomincia con quello outdoor. Ai miei tempi, invece, bisognava essere pronti a correre entrambe le specialità di settimana in settimana”.
La resa dei conti
Nonostante un nono posto al Sunshine Speedway National a St Petersburg dovuto a problemi meccanici, al Supercross di Kansas City e ai Nationals di Southwick, High Point e Road Atlanta Hansen infilò una striscia di risultati molto positiva (3°-1°-3°-1°).
Alla vigilia dell’ultima prova del Campionato Motocross classe 250 tenutasi al CDR tech Track appena fuori Denver (Colorado), l’ufficiale Yamaha Ricky Johnson, che aveva comandato tutta la stagione outdoor, si presentò con un discreto vantaggio in classifica nei confronti di Hansen. “Ero dietro a Johnson di 20 punti. Salvo un miracolo, non c’era modo di vincere il campionato. Ma la gara sì. Nella prima manche partii in testa, quasi a fine gara Broc Glover mi passò. All’ultimo giro c’era un salto dove Johnson ruppe la ruota, mentre io ero proprio alle spalle di Glover. In una curva prima dell’arrivo Broc prese la linea interna, io quella esterna per avere più velocità in uscita. Misi il gas a manetta e sul traguardo lo precedetti di mezza moto. Alla fine di quella manche passai in testa al campionato con una gara ancora da disputare. A causa del problema alla ruota, Johnson chiuse oltre la 20.a posizione e non prese nemmeno un punto, mentre io ne conquistai ben 25”.
E arrivò il momento della resa dei conti fra Hansen e i piloti di El Cajon, Ricky Johnson e Broc Glover. “Se Ricky avesse vinto la seconda manche, io avrei dovuto arrivare almeno terzo per vincere il titolo. Partii di nuovo davanti a tutti, dopodiché venni passato da Glover e poi ancora affiancato da Johnson che scuoteva la testa. Lo lasciai andare. Mi accodai a lui e lo seguii fino al traguardo. Lui arrivò secondo, io terzo e vinsi il Campionato Outdoor”.
Con il sesto posto all’undicesimo round del’AMA/Wrangler Supercross disputatosi il 17 luglio al Memorial Coliseum di Los Angeles, Donnie Hansen si aggiudicò in un mese il suo secondo Campionato AMA.
Destino beffardo
Con la stagione americana conclusa alla grande e con l’idea di prepararsi per il Trofeo delle Nazioni di quell’anno in programma la prima settimana di settembre, Hansen e il Team Honda decisero di partecipare all’ultimo Gran Premio del Mondiale classe 250 a Vimmerby. “Dopo aver vinto tutto in America, partii per il GP di Svezia dove conquistai entrambe le manche – ricorda Hansen -. Nella prima partii in testa, mentre nella seconda sbagliai a uscire da cancelletto, anche se alla staccata ero già secondo. Dopodiché si doveva affrontare un corto rettilineo prima di impostare la seconda curva a destra. Entrando in quella curva ricordo di aver urtato una buca profonda, l’anteriore della moto mi schizzò letteralmente via e rimasi aggrappato al manubrio a mo’ di Superman. Per fortuna riuscii a tenerlo, a concludere la curva e a uscire addirittura primo. Dopodiché mi dileguai. Ma ci mancò veramente poco”.
Dopo tutti gli alti vissuti in quella stagione davvero da sogno, la carriera di Donnie Hansen si interruppe bruscamente. “Due giorni dopo il GP in Svezia andai ad allenarmi in Germania sulla pista di Rolf Dieffenbach. C’eravamo solo io e Magoo Chandler, gli altri ragazzi del Team USA non erano ancora arrivati. Mentre stavo girando a un certo punto rallentai il passo prima di un salto. Dentro di me pensai che fossi abbastanza veloce per farlo. Dopodiché non so cosa sia successo. Non so se saltai troppo lungo o se mi incassai prima. Fatto sta che feci un volo spaventoso. Nel cadere picchiai forte la testa. Non ricordo nemmeno di essere stato trasportato in ospedale in elicottero. Rimasi in coma un paio di settimane.
Mi impedirono di volare a casa per evitare problemi di pressione alla testa. Mi tennero in ospedale in Germania. Ricordo che mi avevano sedato e legato al letto perché volevo andarmene. Non ero più in grado di camminare. Dovetti anche ricominciare ad imparare di nuovo a parlare. Tutto il lato destro del mio corpo era rallentato, ma non stavo soffrendo. Stavo solo cercando di superare il problema. Sapevo che avevo vinto due campionati e che prima o poi sarei tornato in pista.
Sid Johnson, un chirurgo plastico di Oxnard, era il medico di pista di Indian Dunes. Con mia moglie Lisa volarono in Germania per aiutarmi a tornare a casa. Una volta a casa trascorsi un altro paio di settimane all’ospedale di Oxnard, dove imparai di nuovo a leggere e a camminare. Uscito dall’ospedale iniziai la terapia riabilitativa, a fare passeggiate e poi persino a correre a piedi”.
L’ultima chance
Appena rimessosi, Donnie Hansen decise di correre la sua prima gara a Indian Dunes. Era il weekend del Mammoth Mountain Motocross e sapeva che non ci sarebbe stata molta competizione. Solo alcuni di quelli buoni nella classe Pro 250cc. “Quando scesi in pista non riuscivo a concentrarmi sulle linee. Tutto mi sembrava impossibile. Continuavo ad allenarmi durante la settimana nella speranza di rimettere le cose a posto”.
Fine stagione 1983. Nuova moto, la Honda RC250 MY’84. Ancora un’ultima chance per Hansen… “Alla prima gara di quella stagione non ci capivo nulla. Uscii per le libere ma non girava. Nella seconda sessione, identica cosa. Sapevo che era finita. Rientrai ai box e dissi a Dave Arnold: ‘Grazie per l’opportunità, ma la mia carriera finisce qui”.
Affranto…
“No, non lo ero affatto. Avevo raggiunto i miei obiettivi. Anche se fu una decisione amara, non fu come se non avessi vinto nulla e ci fossi arrivato vicino. Mi sentivo soddisfatto di quanto ero stato capace di realizzare. Ok, non ero più un pilota di motocross, ma avrei sempre potuto far parte di questo ambiente sotto altre vesti. Poi nel’84 nacque Josh e cominciai a insegnare motocross ai ragazzini con la mia scuola. Lo faccio da ben 34 anni”.
Poter vincere di più…
“Per come mi sentivo nell’82, assolutamente sì. Non che avessi dominato la stagione, ma avevo ancora molto da imparare per diventare il migliore. E avrei potuto esserlo”.
Amarezza…
“Nessuna. Avevo raggiunto così tanto quell’anno che non fu difficile decidere di smettere. Sono contento di quanto ottenuto e felice di far parte ancora oggi di questo ambiente. Ho imparato e vinto molto in così poco tempo”.
(images RacerX, Jack Burnicle e archivio MOTOCROSS)