JOHNNY O’MARA. IO SONO LEGGENDA
di Eric Johnson
Che sia al Supercross di Anaheim o al GP di Lommel, ancora oggi Johnny O’Mara è molto presente nei paddock di tutto il mondo. Personaggio carismatico, l’ascesa di O’Show nel diventare uno dei più grandi piloti di tutti i tempi è ascrivibile tra il 1980 e il 1981 e si divise in tre atti.
Alla sua prima AMA National 125 al Prairie City OHV Park di Sacramento nel marzo del 1980, dopo aver comandato per oltre 30 minuti la seconda manche prima di venire risucchiato da due veterani come Mark Barnett e Broc Glover, il diciassettenne californiano di Van Nuys e la sua brillante Honda Mugen ME125W1 fecero scalpore tra i 30.000 fans assiepati lungo le reti di Hangtown. Chi era quel ragazzino su quella meravigliosa moto bianca numero 101, si chiesero tutti? Quel giorno gli spettatori avevano annusato la miscela di quella stupenda moto e scoperto un nuovo talento.
Quattro mesi più tardi l’atto numero uno di questa straordinaria storia cominciò nel momento in cui O’Mara e il team ufficiale Mugen vinsero il Gran Premio degli Stati Uniti classe 125 al Mid-Ohio Motocross Park.
A meno di un anno di distanza, e questa volta direttamente inserito nel Team Honda Factory, l’atto numero due aprì la scena al Carlsbad Raceway, appena fuori San Diego, dove O’Mara si aggiudicò la sua prima gara AMA in carriera.
Il terzo atto alzò il sipario il giorno in cui O’Mara, affiancato dai compagni di squadra Honda, Chuck Sun, Danny LaPorte e Donnie Hansen, spostò di nuovo l’asse di rotazione del pianeta vincendo l’annunciato Trophee des Nations (per le moto 250cc) e il Motocross des Nations (per 500cc), rispettivamente in Belgio e Germania.
Il resto di Johnny O’Mara appartiene alla storia. Un Campionato National 125cc, un Campionato Supercross, numerosi trionfi al Motocross e al Trofeo delle Nazioni, nonché vittorie a Gran Premi 125 e 250, sommati a una carriera di grande successo. Una leggenda a pieno titolo che continua ancora oggi ad avere grande seguito e stima tra i fans di tutto mondo.
O’SHOW. STORIA DI UN MITO
“Mio padre era un idraulico, per anni mi portò alle gare assieme a mia madre. Ero disposto a fare qualsiasi faccenda in casa purché mi portassero a correre. Anche mio padre correva in moto, però non era un crossista, era più un pilota da deserto. Durante i fine settimana mi portavano fuori in campeggio e io giravo attorno al falò con una minimoto. E da allora non ho mai smesso di amare questo sport.
Da bambino ero terribile, un po’ timido. In moto andavo pianissimo, tanto che per smuovermi un po’ mio padre mi lanciava dietro dei sassolini. Non mi arrischiavo. A dirla tutta, ero anche un po’ spaventato. Troppo piccolo per quella moto. I miei genitori mi misero subito su una Suzuki 100, quando gli altri bambini della mia età giravano con le Honda XR75. Diciamo che le minicross le avevo quasi saltate a piè pari.
Vicino a Van Nuys, dove vivevo allora, c’erano le Indian Dunes, il Valley Cycle Park, l’Ascot Park e molti posti del genere. Sono cresciuto su quelle piste, tutte a circa un’ora da casa. È il motivo per cui diventai un pilota di motocross. Quelle piste stavano proprio di fronte a me, come se mi stessero chiamando.
A quindici anni vincevo molto a livello locale, praticamente ogni gara della classe 100 organizzata da quelle parti. Il mio primo anno come professionista, cioè quando cominciai a guadagnare dei soldi, fu nel 1976.
La prima volta che qualcuno mi vide veramente correre fu alla Golden State Series. Erano gare importanti allora. Come le Trans-Cal. In quelle occasioni corsi contro Jeff Ward. Tutti sapevano che eravamo arcirivali. Quelle corse erano davvero come i Nationals di oggi. Volevo farmi un nome. Da ragazzino avrei dovuto seguire più un percorso da minicrossista, invece preferii cimentarmi in altro modo. Tutti volevano correre gare più importanti e io ero lì per battere i migliori. È così che il mio nome divenne popolare in questa zona della California”.
BAKER E IL PROGRAMMA MUGEN
Il pluripremiato vincitore di Baja aveva un debole per le Honda XL e XR. Il fatto che Al Baker vivesse a San Fernando Valley, Los Angeles, fu geograficamente parlando una fortuna per il giovane O’Mara.
“Baker aveva la concessionaria a Van Nuys, ogni giorno pedalavo fin lì in bicicletta. Ero praticamente una piaga, sin da piccolo sono sempre stato attratto dalle moto. Conoscevo dei ragazzi che ci lavoravano come Tom Halverson e qualcun altro. Erano un po’ più grandi di me, avevano già una loro mansione, mentre io ero quello che spazzava i pavimenti. Sapevano che ci sapevo fare in moto e consigliarono ad Al di andarmi a vedere. Al venne a vedermi correre un venerdì sera e lì capì che avevo qualcosa. Credo che avesse visto in me il fuoco, il desiderio che ardeva e l’impegno che ci mettevo. Quasi contagioso. Tutti volevano aiutarmi, fui davvero fortunato, altrimenti non sarei diventato un pilota di motocross. Probabilmente sarei diventato un idraulico come mio padre”.
E fu così che, per mano di Baker, il programma Mugen si materializzò. Sostenuto pesantemente da Hirotoshi Honda, Honda e Baker si proponevano di creare un team appositamente messo in piedi per O’Mara e la ME125W1.
“Al Baker prese contatto con Hirotoshi Honda. Non potevo credere che il figlio del signor Honda mi avesse considerato per promuovere la sua compagnia. Chiamammo la moto Mugen, ma in realtà era una Mugen Honda. Il basamento era Honda. Il resto veniva realizzato artigianalmente da Honda. A volte penso sia ancora oggi considerata la moto più bella di sempre. Mi misero in sella a quella stupenda moto bianca, unica nel suo genere. Bianca come il mio abbigliamento gara. Mi sentivo quasi imbarazzato a indossarlo.
Con Mugen fu un programma di un anno. Per Hirotoshi era quasi una sorta di gioco. Aveva i suoi affari in Giappone, seguiva il progetto Honda in Formula 1. Quello Mugen nel cross americano fu solo un progetto collaterale che portò avanti per conto proprio.
Molto prima di decidere di correre i Nationals, avremmo dovuto fare delle gare nel Sud California: la gente sarebbe rimasta a bocca aperta. Ero un tipo molto timido e mi domandavo come avrei potuto gestire la situazione. Penso che sia per questo che sono cresciuto così in fretta. Devo ammettere che avevo paura di assumere quel ruolo. Comunque, non mi sono mai piaciuti i riflettori.
Nel 1980 al Nationals di Hangtown fu la mia prima vera gara cui partecipai in vita mia. Le manche erano 40 minuti più due giri. Nella seconda rimasi a lungo al comando finché non crollai. Ero totalmente finito. Broc Glover e Mark Barnett a pochi giri dalla fine mi passarono, ma fino quel momento stavo battendo due pezzi grossi. Quasi surreale”.
FUTURO HONDA GIÀ SCRITTO
Il quarto posto assoluto fu incoraggiante per O’Mara, Baker e Honda Mugen. Aspettando il resto dell’estate, tutto s’interruppe bruscamente quando O’Mara si schiantò col suo pickup ritrovandosi ben presto in ospedale.
“In quell’incidente sulla 101 Freeway a Thousand Oaks mi fratturai alcune vertebre. Mi ero addormentato al volante. Non mi accorsi di nulla. Una cosa stranissima. Fortunatamente furono solo fratture, ma avrebbe potuto finire molto peggio. Quel giorno schivai letteralmente un proiettile. Alla fine, persi metà campionato e lavorai sodo per rimettermi in forma”.
Appena riconquistate le forze, O’Mara e il team decisero di tornare nel Midwest per correre il Gran Premio del Mondiale di Motocross classe 125 a Lexington, Ohio. Era la domenica del 27 luglio 1980.
“Sono sempre stato un grande curioso di questo sport, conoscevo tutti quelli che correvano in Europa come il pluri-Campione del Mondo Harry Everts. C’erano i migliori piloti del momento, mentre io ero solo un ragazzino ingenuo che non sapeva davvero cosa pensare. A un certo punto, dopo la gara, vidi Harry Everts che fumava una sigaretta. Non ci potevo credere!
Non appena mi schierai dietro il cancelletto della prima manche pensai che con quel fango avrei dovuto partire davanti a tutti. Vestito di bianco detestavo sporcarmi. Quella domenica ero davvero convinto di vincere. Amavo quel genere di sfide. Nessuno mi avrebbe fermato. Vinsi il GP e tutti rimasero stupefatti. Da quel giorno gli europei conobbero il mio nome”.
Alla fine della stagione del 1980, Honda si attenne ai programmi stabiliti chiudendo il Team Mugen in America e dirottando O’Mara nel Team Honda ufficiale.
“In realtà mi sentivo come se stessi già correndo per Honda. Il mio percorso era già stabilito. Gunnar Lindstrom fu il mio primo team manager in Honda. Ero la sua prima scelta. Non avevo mai corso il Supercross, ma fui molto competitivo sin da subito. Tuttavia, il mio obiettivo in Honda era quello di voler essere il miglior pilota al mondo su una 125. Ho sempre avuto obiettivi ben precisi. Nessuno sarebbe stato più forte di me”.
Fino a prima della gara conclusiva della stagione ’81 al Carlsbad Raceway appena fuori San Diego, l’ufficiale Suzuki Mark Barnett aveva vinto tutte le manche del Nationals 125. Tuttavia, un infortunio di allenamento infrasettimanale lo lasciò con una clavicola rotta. E O’Mara cercò di approfittarne.
“Barnett era a casa da due settimane infortunato, ma era già Campione. Dovevo approfittare della situazione ben sapendo che a Carlsbad avrei vinto. Il miglior modo per concludere la prima stagione in Honda”.
Nell’autunno del 1981 il consulente del Team Honda, Roger De Coster, andò in Giappone a chiedere ai dirigenti Honda il permesso di inviare una giovane squadra americana composta da Chuck Sun, Danny LaPorte, Donnie Hansen e O’Mara al celebre Trophee des Nations e al Motocross des Nations.
“Essendo molto giovane non ne sapevo molto del Trofeo e del Motocross delle Nazioni. Ancora oggi continuo a chiamare il Nazioni le Olimpiadi del nostro sport, perché tali le considero. È davvero come rappresentare il proprio Paese ai giochi olimpici. Non ero mai stato in Europa prima di allora. Lommel, la sede designata per il Trofeo delle Nazioni, era un mucchio si sabbia senza fondo. Non ho mai più corso su una pista del genere. Su quelle buche tremende guidavo quasi come se fossi al Supercross, usavo la stessa tecnica. Ciò ci rese un po’ più competitivi. Feci due holeshot e i miei compagni mi seguirono a ruota. Quel giorno sconvolgemmo il mondo intero.
Il Motocross delle Nazioni era programmato la settimana dopo Lommel. Non avevo mai corso con una 500. A malapena ero salito su una 250. Ero uno specialista della 125 e per correre a Bielstein la HRC mi aveva affidato una 500 ufficiale. Una vera bestia. Ne ero quasi spaventato. Non avevo idea di cosa avrei dovuto fare fino a quando non ci salii sopra. Lo guidavo come una 125. A un certo punto ricordo di aver detto a Roger De Coster, a Dave Arnold e ai ragazzi del team che con quella moto non ci avrei corso. Avrei preferito piuttosto mangiarmi una ‘torta di mucca’.
Onestamente lo stile di guida dei piloti GP non m’impressionò. In realtà mi facevano ridere. Avrei dovuto fare una lezione di motocross. Eppure andavano veloci. Rimasi semplicemente spiazzato guardando lo stile europeo rispetto a quello americano. Non capivo davvero come guidassero. Due mondi completamente opposti”.
Per il Campionato Nationals 125 dell’82 O’Mara continuò a dare la caccia a Barnett per cercare di detronizzare l’ufficiale Suzuki.
“Quell’anno vinsi un paio di gare, avevo un po’ ridotto il gap con lui, ma rimaneva pur sempre l’uomo da battere. Mi ci vollero tre anni prima di riuscire ad avere la meglio. Era inavvicinabile. Ancora oggi ritengo Barnett uno dei piloti più tosti che abbia mai conosciuto. Non potevi nemmeno immaginare di batterlo senza allenarti come un animale. Lavorai davvero sodo per riuscirci.
Nel settembre di quell’anno fui il solo pilota americano del Team USA dell’anno precedente a essere convocato per correre il Trofeo e il Motocross delle Nazioni. Ero quasi un veterano per la nostra squadra. Continuammo a vincere entrambe le gare. Il Trofeo classe 250 a Gaildorf fu una gara eccellente. Ricordo ancora distintamente di aver condotto la prima manche in testa per qualche giro”.
1983-1984. GLI ANNI BUONI
In possesso di tutto ciò di cui aveva bisogno per diventare il miglior pilota 125 del Pianeta Terra, O’Mara sapeva esattamente a cosa andava incontro quando i Nationals scattarono il 27 marzo 1983 da Hangtown.
“Non dominai completamente la stagione, fu piuttosto un processo di crescita costante. Per ben due anni ero arrivato dietro a Barnett, sembravo abbonato alla seconda posizione. Ma, man mano, di anno in anno il nostro divario si ridusse e sapevo che era arrivato il mio momento. Nella stagione ’83 lottai contro Barnett, Ward, Ron Lechien. Il titolo 125 era il mio unico obiettivo e sapevo che sarebbe stata una guerra.
Vinsi molte manche, fui costante, me la giocai fino alla fine. La settimana prima della prova finale a Millville si correva a Lakewood, in Colorado. Durante la gara mi fratturai l’alluce. Giù da una discesa mi prese sotto la ruota anteriore e d’istinto misi giù male il piede. Sentii subito che qualcosa si era rotto, ma nella foga del momento non ci feci caso. Continuai a fare la mia gara. Purtroppo, una volta tornato ai box non riuscii più a togliermi lo stivale. C’erano ancora due manche da correre a Millville e io avevo a che fare con un dito del piede rotto. A Millville cercai di contenere i danni senza perdere troppi punti, feci lo stretto necessario per aggiudicarmi il titolo 125. A bocce ferme, poi, mi sentii totalmente spossato, sia di fisico che di testa”.
Nel 1984 O’Mara vinse la bellezza di cinque finali Supercross assicurandosi il più prestigioso dei titoli AMA.
“Dopo aver vinto il Nationals 125 mi sentivo pronto a vincere anche il Supercross. Ero nel pieno della mia carriera. Erano già un paio d’anni che ci provavo ed era arrivato il mio momento. Correvo per il miglior team del paddock e in più ero in condizione strepitosa. Alla prima di Anaheim, davanti a 70mila spettatori, vinsi tutto quello che c’era da vincere: heat, semi e finale. Fu il miglior modo di iniziare. Per un certo numero di anni chi vinceva Anaheim vinceva anche il titolo”.
La vittoria dell’AMA Supercross Championship rappresentò il massimo riconoscimento per O’Mara, ma tutto quello sforzo per raggiungere il titolo gli costò parecchio quando arrivò il momento di combattere contro Jeff Ward per il Nationals 125.
“Realisticamente parlando, Ward era cresciuto molto. Fu una seria minaccia come lo fui io l’anno prima per Barnett. Quando, dopo una stagione intensissima, dovetti togliere la tabella numero uno per consegnarla a Ward fu un momento davvero doloroso. Non ci vedevamo di buon occhio. Quell’anno c’eravamo solo noi due. Nessun altro fu in grado di intromettersi. L’anno prima ce n’erano almeno quattro o cinque capaci di vincere una manche, ma nell’84 ce la giocammo solo io e Ward. Lui vinse più di me e mi batté lealmente”.
Imperterrito, quel settembre del 1984 O’Mara si unì a Rick Johnson, Jeff Ward, David Bailey e Broc Glover per vincere sia il Motocross delle Nazioni sia il Trofeo delle Nazioni.
“Quell’anno il Motocross delle Nazioni e il Trofeo delle Nazioni si corsero in Finlandia e Svezia a una settimana di distanza. A Vantaa si arrivò a decretare il vincitore solo agli ultimi giri. Come negli anni precedenti, la spuntammo noi americani. Ancora oggi trovo incredibile quanto riuscimmo a fare laggiù”.
- EMOZIONI CONTRASTANTI
“Il mio tempo con Honda era giunto al termine. Questa è la parte più difficile del nostro lavoro. Honda era come una famiglia per me, non avrei mai pensato di correre con un’altra moto fino al giorno in cui avessi smesso. Quella stagione Honda aveva i tre migliori piloti al mondo. Chiudemmo primo, secondo e terzo in quasi tutte le gare. Ricky Johnson, David Bailey ed io eravamo sempre sul podio. Quell’anno Honda fece letteralmente piazza pulita. Io stavo al terzo posto, difficile da digerire, ero il pilota che probabilmente avrebbe lasciato Honda.
Il 1986 fu un anno particolarmente difficile anche perché persi Al Baker. Per me un grande amico. Fu davvero dura, come aver perso un padre. Quell’anno successero molte cose. Certo, vinsi il Motocross delle Nazioni in Italia a Maggiora, firmai un nuovo contratto e lasciai Honda, ma il mio migliore amico David Bailey si fece seriamente male. Tutto un insieme di cose che mi fecero capire quanto la vita sia delicata. Ma andai avanti continuando a fare l’unica cosa che sapevo fare”.
IN SUZUKI PER LE STAGIONI 87-88-89
“Avevo ancora un nome importante da spendere, Suzuki era disposta a mettermi sotto contratto per tre anni e stavo lasciando quel concentrato di potenza che era Honda. Una nuova avventura e un nuovo team intento a costruire la propria immagine. Fui fortunato a trovarmi in quella situazione e la colsi al volo. Ebbi difficoltà a pensare di non essere più un pilota Honda, ma allo stesso tempo ricevetti buone opportunità di lavoro da Suzuki, disposta a pagarmi molto bene. Fu un momento cruciale della mia carriera. C’era ancora, nel profondo, una parte di me che pensava di poter vincere. Nemmeno avevo preso in considerazione di gettare la spugna. Ma dopo tre anni incominciai a fare più errori. Non fu affatto facile. Le cose che davo per scontato e che potevo fare con la Honda, non mi riuscivano con la Suzuki. Le mie capacità non erano in realtà regredite, è solo che sulla Suzuki non mi sentivo a mio agio. Con la Suzuki avevo molto meno margine di errore, dovevo essere perfetto in tutto”.
Come il canto del cigno, O’Mara, spinto da un’aspra rivalità con Jeff Ward, decise di unirsi al Team Kawasaki per un’ultima stagione.
“A fine ’89 il contratto con Suzuki giunse al termine e si aprì uno spiraglio con Kawasaki. Jeff Ward ed io diventammo grandi amici. Nell’ambiente ero piuttosto rispettato per lo sviluppo delle moto, i test e per la mia etica professionale. Quell’anno Kawasaki aveva bisogno di una figura come la mia per supportare Wardy e Jeff Matiasevich. Così, entrai nel team e mi occupai in gran parte dello sviluppo delle moto da gara. Fu la mia undicesima e ultima stagione. L’avevo già in mente. Sentivo che era arrivato il momento”.
ESPERIMENTO HONDA OF TROY
“Quando ti ritiri, il più delle volte passi le giornate ad annoiarti. Quasi come se tutto passasse senza un perché. Certo, non stavo senza far nulla. Una volta appeso il casco, mi dedicai alle corse in bici e mountain bike e anche con un certo successo. Dimostrai quanto sono forti i piloti di motocross. Mi sentivo come se stessi portando l’industria del motocross sulle spalle. Ancora oggi, quando corro in mountain bike, sono conosciuto come il pilota di motocross.
Così, nel 1993, a Phil Alderton, proprietario di Honda of Troy, e al sottoscritto venne l’idea di correre l’AMA Nationals 125. Ero convinto che con tre o quattro mesi di allenamento me la sarei potuta giocare coi migliori. Come se fosse una sciocchezza risalire su una 125 e correre contro nessuno. La mia testa mi diceva così. Del resto, avevo pur sempre trent’anni, mica l’età della pietra.
E mentre la situazione sembrava promettente, in realtà non andò affatto bene. Un giorno durante un allenamento nel Michigan finii la benzina su un triplo, atterrai corto e mi fratturai il tallone. Jeff Stanton mi portò in ospedale. Il tallone era come un guscio d’uovo in frantumi. Mi fa male ancora oggi. Anche se ci riprovai, da quell’infortunio non potevo più tornare indietro. Sapevo che era finita”.
MAI SVANIRE NEL NULLA
“Credo di aver fatto un buon lavoro in carriera. Aver avuto tutte quelle opportunità sia nello sport che nell’ambiente del motocross, è per me un grande onore. Tutto ciò che ho fatto mi è stato restituito. È stato un onore aver avuto un ruolo importante nella carriera di Ricky Carmichael, di Ryan Dungey e James Stewart. So di aver fatto le cose giuste, ho costruito la mia eredità nella maniera più corretta, ho vinto i miei campionati, fatto il mio lavoro con etica professionale. Mi sento veramente un privilegiato ad avere ancora oggi importanti opportunità di lavoro in questo mondo che amo con tutto me stesso. Se qualcuno ha bisogno di aiuto con la preparazione o nell’identificare i propri punti deboli, sa dove trovarmi. Ancora oggi ho il privilegio di lavorare con alcuni dei migliori ragazzi americani. È una bella sensazione. Oggi sono più vecchio di ieri, certo, ma nel cuore mi sento ancora giovane.
Non credo che oggi sia molto diverso da allora. Le moto, i quattro tempi e tutte le cose che stanno facendo sono stupefacenti, ma alla fine tutto dipende sempre dal pilota, dalla sua tecnica, dal suo talento, dal suo sapersi adattare e dalla sua voglia di emergere. Quelli che hanno queste caratteristiche sono di solito quelli che vincono. Puoi anche disporre di tutta la tecnologia che vuoi, ma continuo a pensare che dopo tutto è il pilota a fare la differenza. Quello che brucia più benzina degli altri. È il solo modo per essere dei numeri uno. Era ed è ancora oggi lo stesso mio modo di fare le cose”.
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