PRO CIRCUIT. MOTO DI RAZZA
di Eric Johnson
Un pezzo di storia del nostro sport gelosamente custodito all’interno del team di maggior successo negli States
Buttare l’occhio sulle moto da cross che hanno vinto titoli a profusione può essere un ipnotizzante corso accelerato di storia del nostro sport. In nessun’altra parte al mondo questo “effetto ottico” è così marcato come al numero 2771 di Wardlow Road a Corona, in California. Dove si trova la Pro Circuit Racing International, al cui interno è conservata con cura una collezione di esemplari unici di 125 2T e 250 4T che possono fregiarsi della bellezza di oltre 30 titoli (Motocross delle Nazioni compresi) e più di 200 gare vinte. Un condensato di concetti di alto spessore tecnico che ha contribuito a dar vita a una dinastia di campioni come nessun’altra.
L’amico Mitch Payton, a capo della Pro Circuit e della squadra corse che da 25 anni domina la scena del cross americano, ci ha illustrato sei delle sue moto campioni che custodiscono storie e aneddoti da raccontare.
Jeremy McGrath: 1992 Team Peak/Pro Circuit/Honda CR125
“Il 1991 era il primo anno del Team Pro Circuit. All’inizio si dissero molte cattiverie sul nostro conto, poi però i nostri ragazzi e le nostre moto si misero in mostra (vinsero le coste SX 125 West ed East rispettivamente con McGrath e Brian Swink). Avevamo buone sospensioni, motori fantastici, superiori a qualsiasi altra moto. Nella stagione ’92 McGrath fu il nostro primo vero pilota a correre con la tabella numero uno sulla sua Honda. Alla prima gara a Houston, con le due coste SX East/West assieme, Jeremy era un po’ nervoso e fece terzo. Lo presi da parte e gli chiesi se avessimo dovuto fare altri test, ma secondo lui non c’era niente di sbagliato nella moto, dovevamo lasciarla com’era. Uscimmo comunque a provare pezzi nuovi e lui scelse esattamente gli stessi di prima, ribadendomi che tutto andava bene, di lasciarlo solo tranquillo. Da quel giorno in poi fu dirompente.
Nell’outdoor, invece, Jeremy e i ragazzi del team fecero fatica, non so se non ci credessero o meno. Ci furono anche momenti buoni, non quanto però mi sarei aspettato da loro. La maggiore attenzione di Jeremy era spostata al Supercross, ciò che realmente amava. Per lui l’outdoor era qualcosa d’innaturale, faticava molto. Il Supercross era invece la sua dimensione ideale, era nato per quello. La Honda era una buona moto, tuttavia non ci fu un proficuo rapporto di collaborazione con loro, per qualche strana ragione nacquero delle gelosie che ancora oggi non so spiegare. Non avevano visto il programma nella sua completezza, e quando decisero di interromperlo mi dissero: ‘Abbiamo appena iniziato il Red Riders Club, tu invece corri con le Honda blu’. Pensavo che Honda avrebbe continuato con noi una collaborazione a lungo termine, con loro avevamo già lavorato molti anni prima del team. Ancora oggi non me lo spiego.
Avere Peak (prodotti antigelo) come sponsor fu importante, nessuno prima di allora arrivò a fare quanto fui in grado di realizzare. Per un certo periodo seguii le gare di auto IMSA, avevo un amico che guidava una Mazda GTU e l’immagine del team, piloti, macchine, camion, divise, era tutta coordinata. Bellissimo colpo d’occhio, non c’è che dire. Mi dissi che quello sarebbe stato il modo giusto di presentarci alle gare e l’unica persona che ebbe il mio stesso punto di vista fu Jim Hale, all’epoca titolare AXO. Allora in AXO lavorava Kenny Safford che disegnò per noi l’immagine del team. Una cosa fighissima per quei tempi. Firmammo un contratto con Old World Industries per avere come sponsor Peak e SplitFire. Fummo davvero fortunati”.
Mickael Pichon: 1995 Team SplitFire/Pro Circuit/Kawasaki KX125
“Nel ’93 Mickael venne per un breve periodo in America. Al tempo correva con Honda e ci occupammo delle sue moto per tre gare Supercross, di cui vinse l’ultima a San Diego. Dopodiché tornò in Francia. Capii che quel ragazzo aveva stoffa e lo volli nel mio team. L’anno dopo andai a vedere un GP nel nord della Francia, un po’ nevicava, un po’ pioveva, fondo difficile, e Mickael vinse entrambe le manche con 20 e 30 secondi di vantaggio. Guida fenomenale la sua e gli proposi di correre per noi. Trasferirsi in America fu per Mickael un passo difficile soprattutto perché non conosceva bene la lingua. Era un po’ come parlare con un bambino, uno dei motivi per il quali ho sempre avuto molto rispetto per quei ragazzi che, indipendentemente da dove arrivino, lasciano casa, famiglia e amici per cercare la propria strada. È molto dura. Lo capisci dalle difficoltà che incontrano. Mickael però si ambientò velocemente e nel 1995 vinse tre gare e il titolo Supercross 125 East Coast. Ancora oggi siamo amici, fu meraviglioso, amavo il suo talento, era uno di quei piloti Supercross molto dotati, aveva una guida facile, apparentemente priva di forzature”.
Ricky Carmichael: 1997 Team SplitFire/Pro Circuit/Kawasaki KX125
“Incominciammo ad aiutarlo da quando correva con la 85cc, lì conoscemmo la sua famiglia. Bones Bacon e Jimmy Perry erano soliti andare ogni anno alla Loretta Lynn’s con Ricky. Nel ’97 Ricky divenne parte del nostro team, fu davvero un ottimo investimento, prima di allora avevamo vinto molte gare e qualche titolo Supercross, ma mai un titolo outdoor, che desideravo molto. Però era un campionato più complesso del Supercross, c’era molto da lavorare, davvero più duro. Anche oggi è così. Il 1997 fu un anno di apprendistato per Ricky nel Supercross, ma quando fummo pronti per la prima del Nationals a Gainsville, si rivelò magnifico. Era ancora un ragazzino e anche un po’ sovrappeso, fisicamente non era in formissima, tuttavia nell’outdoor andava fortissimo, continuava a spingere, ancora, ancora e ancora: 40 minuti di manche non rappresentavano un problema per lui, molti altri invece partivano a fuoco, poi nel corso della gara calavano di rendimento. Ricky, invece, era instancabile. Ricordo che alla prima manche Steve Lamson era al comando e dietro aveva Ricky che lo tallonava. Fecero primo e secondo. A fine gara Ricky mi confidò che stava aspettando il calo di Lamson, ma Steve, gli dissi, non sarebbe calato. Ricky, invece, era di tutt’altra opinione. In gara2 Kevin Windham partì in testa e vi rimase per buona parte, mentre Carmichael stava risalendo, quando all’improvviso lo affiancò, lo sorpassò e se ne andò via. Dio mio, fu stupendo. Ciò che stupì è che Ricky aveva in testa la Loretta’s. Naturalmente considerai il fatto di correre altre due gare di National per vedere effettivamente il suo livello e mi domandò quali sarebbero stati i programmi nel caso in cui si fosse trovato al comando del campionato. ‘Ci porremo il problema più avanti’ gli risposi. Andammo a correre il secondo round ad Hangtown e vince anche lì, su qualsiasi altra condizione di pista si dimostrò velocissimo. Non fu poi così difficile rinunciare alla Loretta.
Ricky era uno di quei ragazzi molto vicini a noi, siamo rimasti molto amici. Fu divertente vederlo iniziare col nostro team e avere tutto il successo che ha ottenuto. L’ultimo giorno della sua carriera al Nazioni di Budds Creek c’ero anch’io. Fu un momento davvero triste. Pensai: ‘Dio mio, sono passati dieci anni, così, in un lampo. Come è arrivato, alla stessa velocità ha salutato il pubblico’.
A quei tempi la nostra collaborazione con Kawasaki era molto solida, volevamo entrambi vincere, avevamo bisogno di condividere parti speciali della moto. Ogni pezzo doveva combaciare alla perfezione per ottenere la miglior soluzione. Tre decimi qui, tre decimi là, ancora altri tre là, ed ecco recuperato quasi un secondo sul giro, che equivaleva a un cavallo circa in più. Quindi, c’era bisogno di quei pezzi”.
Mike Brown: 2001 Team Pro Circuit/Kawasaki KX125
“Stavamo pianificando la trasferta in Belgio per il Motocross delle Nazioni, tutti ne erano entusiasti. Il Team USA era composto da Ricky Carmichael, Kevin Windham e Mike Brown che correva per noi, per me sarebbe stato come un viaggio tra amici, le cose avrebbero dovuto filare lisce, lavorando tutti assieme in armonia. Purtroppo, però, un meccanico mi chiamò a casa per dirmi di accendere la televisione. Vedendo le Torri Gemelle non credetti ai miei occhi, mi sembrò di vivere uno di quei film alla Die Hard o roba del genere. Continuavo a chiedermi se fosse reale. Dio mio, era proprio vero. Corsi subito al team, i ragazzi erano seriamente preoccupati. La moto di Mike era nella cassa per essere spedita il giorno stesso, ma tutta l’America era letteralmente bloccata: nessuno volava o andava da nessuna parte. Chiamai Roger De Coster per chiedergli cosa dovessimo fare, se spedire le moto o meno. Non lo sapeva, stava cercando di contattare Ricky e Kevin. Alla fine, ci riuscì ma, vista la situazione, entrambi si rifiutarono di andare al Nazioni. Al contrario, Mike desiderava correre e mi propose di ingaggiare qualche altro pilota. Più tardi, quella sera, mi chiamò mia madre per chiedermi cosa diavolo stessimo combinando. ‘Giusto perché tu lo sappia – mi disse – tuo padre ed io preferiremmo che stessi a casa anche tu’. Mio padre era un ex marine, per lui avrei potuto anche andarci, senza che quanto successo dovesse cambiare la mia mente, ma anche che, tuttavia, una volta partito sotto un nuovo attacco terroristico avrei potuto rimanere bloccato in Europa per un bel po’. Da qualche parte ho una foto di quella sera con tutti i ragazzi in officina con l’indice alzato e un cartello con scritto F@#k Bin Laden. Decidemmo quindi di non partire. Questa che vedi è la moto che Steve Henderson aveva preparato per Mike Brown, pronta per essere spedita al Nazioni. Fu una giornata terribile per tutti che ci mostrò fino a che punto può spingersi una mente acciecata dall’odio”.
Ivan Tedesco: 2004 Team Pro Circuit/Kawasaki KX250F
“Dal 1980 o ’81 fino al 2003 ho speso tempo e forze per cercare di imparare tutto sui motori 2 tempi. Volevo realizzare dei motori davvero aggressivi e per farlo capii che non bastava intervenire solo su cilindro e testa, ma su un insieme di elementi: sistema di aspirazione, pacco lamellare, dimensioni del carburatore, riempimento del carter pompa, rapporto di compressione. Ma soprattutto capire la vera arte oscura dell’espansione. Allora non c’erano in giro molti in grado di conoscere i veri segreti della marmitta 2 tempi. La persona che più mi aiutò in questa ricerca fu Paul Turner, uno che capiva di cilindri, di teste e di scarichi come pochi, era in grado di elaborare un pacchetto completo. Così fu per gran parte della mia vita, fino a quando non cominciarono a comparire i primi quattro tempi. Pensai che la gente si fosse ammattita: com’era possibile mettere a confronto la 125 2T con la 250 4T? Con Yamaha che aveva appena messo sul mercato la YZF250 e Honda, Kawasaki e Suzuki che in breve l’avrebbero seguita, presto sembrò che per correre a certi livelli non ci fosse altra soluzione da abbracciare. Ero consapevole quindi del fatto che avremmo dovuto imparare i segreti del 4 tempi, fortuna vuole che quando correvo nelle auto feci la conoscenza di Drino Miller, un eccezionale motorista. Aveva lavorato per Andial Porsche e Toyota Racing Development e vantava un’esperienza vastissima in merito. Gli portammo una Yamaha e una Honda, con tutti i pezzi che potessero servirci, volevamo fare in casa nostra praticamente tutto, dal pistone alla testa, dalle camme alle molle valvole. Dovevamo prendere accordi in esclusiva con molti produttori e lavorare a stretto contatto. Del West ci realizzò le valvole, in questo settore era il massimo, lavorava già per la Formula 1 e sapeva il fatto suo.
Quando arrivò la Kawasaki KX250F eravamo molto entusiasti, ma la moto non era molto veloce. A quel tempo Yamaha era sul mercato già da un paio d’anni, sapevo quanta potenza si poteva ricavare da una YZ250F, ma eravamo anche vicini a Kawasaki, quindi, sapevo che avremo avuto molto da lavorare.
Quando nel 2004 mettemmo sotto contratto Ivan Tedesco, la sua idea era quella di correre con una 2 tempi. Il problema fu che dal 2003 al 2004 il nuovo regolamento impose l’uso della benzina senza piombo che con la preparazione dei nostri motori ci azzeccava poco. Avevamo meno compressione e in generale andavano meno dell’anno prima. A Ivan dissi di pensare seriamente a correre col 4 tempi, perché dal 125, nonostante i nostri sforzi, non stavamo cavando fuori granché. Ricorsi a qualsiasi tipo di malizia, ma la moto non andava come prima. Ivan provò entrambe le moto e fece registrare lo stesso tempo sul giro. Facemmo poi test di partenza e sulle whoops, ma in entrambi i casi fu più veloce con la 4 tempi perché scaricava più potenza a terra. Decise quindi di correre con quella moto e cominciò a vincere da subito. Il 2004 fu un anno davvero faticoso, ma molto gratificante (Tedesco vinse il titolo SX West)”.
Ryan Villopoto: 2007 Team Monster Energy/Pro Circuit/Kawasaki KX250F
“Il 2007 era il secondo anno di Ryan con noi. L’anno prima aveva vinto i titoli Supercross e Outdoor, l’anno dopo si presentò al National con la tabella numero uno. Con noi nel 2007 c’era anche Ben Townley che vinse il titolo East Coast (quello West, come detto, andò invece a Ryan). All’outdoor ci presentammo, dunque, con due Campioni SX. Molta gente pensò che avremmo avuto difficoltà a gestirli entrambi sotto la stessa tenda, ma prima che la stagione di Motocross iniziasse il team si riunì stabilendo che, per zittire le malelingue, fra Ryan e Ben non avrebbe dovuto sortire il minimo problema. E andò così. Sebbene rivali, fra di loro ci fu armonia, erano compagni di squadra, volevano entrambi vincere e diedero ognuno il massimo. Alla fine, Ryan ebbe la meglio, ma Ben fu un degno rivale.
A fine stagione eravamo pronti per il Motocross delle Nazioni a Budds Creek e tutto si preannunciava fantastico: nella 250 c’erano i due nostri migliori piloti, si presentò quindi la possibilità di confrontarci con Antonio Cairoli. Tuttavia, per Ben il Nazioni finì appena dopo le prove libere, s’infortunò alla spalla e non fu più in grado di correre. Il Team USA si qualificò primo con Ryan, Ricky e Tim Ferry. Per la manche di apertura avevamo la prima entrata al cancelletto di partenza e Villopoto si mise tutto all’interno, una posizione maledettamente buona a Budds Creek se non c’è fango. Ryan partì a fuoco, alla prima curva era già in testa, dopodiché inanellò giri impressionanti (stabilì pure il record sul giro) e chiuse primo con largo margine sui rivali. In gara2 stessa identica cosa: di nuovo l’holeshot, giro veloce, spinse da subito sull’acceleratore e distanziò tutti. Guidò in testa ogni singolo giro sia contro le 450 che contro le Open, vincendo l’assoluta. Fu incredibile assistere alle sue magie. Ad oggi non c’è mai stato un pilota Lites o MX2 in grado di fare al Nazioni quanto fece Ryan. Tra i tanti ragazzi che abbiamo avuto nel team ce ne sono stati alcuni davvero speciali. Ryan era uno di quelli. Ciò che fece in moto fu assolutamente fantastico”.
(images Ryne Swamberg)